Opinioni | Giustizia, una battaglia di libertà

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La differenza tra lo Stato dell’ Ancien Régime o le attuali autocrazie, e lo Stato emerso dalla rivoluzione costituzionale del XVIII e XIX secolo consiste in primo luogo nella limitazione del Potere attuata attraverso la sua parcellizzazione e la progressiva attribuzione dei poteri risultanti a istituzioni separate, in maniera da attuare un «equilibrio tra poteri». Anche nell’Ancien Régime il potere non era interamente nelle mani del Sovrano assoluto. I Parlamenti, espressione di ceti diversi (nobiltà, clero, terzo stato produttivo), conservavano il potere di autorizzare il Re a riscuotere tributi, limitando così almeno in parte il potere assoluto del Sovrano, che esercitava tuttavia un potere quasi senza limiti grazie al controllo di tutta l’amministrazione pubblica, alle ampie risorse personali (di cui sono ultimo residuo le rendite del Galles o della Cornovaglia sinora percepite dalla famiglia reale inglese), e soprattutto al controllo della giustizia, in particolare – dopo la progressiva separazione della funzione requirente dalla giudicante – delle Procure. I Procuratori, i vertici cioè dell’attività inquirente, sono rimasti a lungo – quando i Giudici erano ormai indipendenti dall’Esecutivo – i «Procuratori del Re», soggetti cioè nella loro funzione alle indicazioni e direttive del capo dell’Esecutivo.

Come il Sovrano assoluto di un tempo, quanti nella classe politica odierna temono ogni controllo e limite alla loro azione hanno come ultima carta da giocare contro l’indipendenza dei poteri – cuore di qualsiasi sistema democratico – il tentativo di mantenere o di ristabilire il proprio controllo della magistratura requirente. Dopo aver annullato il potere dei Parlamenti (specie laddove come in Italia i partiti grazie alle liste bloccate hanno completamente asservito i parlamentari, e in cui lo stesso bicameralismo è di fatto ridotto ad un inutile simulacro, come ben mostra l’iter della nostra legge di bilancio), riacquisire il controllo delle Procure permetterebbe alle maggioranze di governo di controllare in ogni sua effettiva articolazione l’azione di tutela della legalità che è la funzione preminente della magistratura requirente, dettando di fatto o tramite atti legislativi limiti all’obbligatorietà dell’azione penale.




















































Vista in questa luce, la proposta di separazione delle carriere unitamente alla creazione di due distinti CSM, e di una nuova Alta corte di giustizia composta da non magistrati cui affidare la funzione disciplinare, sono misure comprensibili anche se assolutamente non condivisibili, rappresentando un vulnus irrimediabile al principio fondante delle moderne liberal-democrazie: l’autonomia e separazione dei poteri.

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In questa ottica di contenimento dell’azione della magistratura requirente divengono comprensibili anche se egualmente non condivisibili le singole proposte del ministro Nordio: la modifica del reato di traffico di influenze e l’abolizione dell’abuso d’ufficio cancellano ipotesi di reato che permettevano indagini utili all’individuazione di reati di ben maggiore consistenza da parte della classe politica o dei cosiddetti «colletti bianchi». La decisione di affidare le misure di custodia cautelare in carcere ad un giudizio non più monocratico ma ad un collegio di tre magistrati, e l’obbligo di interrogare l’imputato prima di valutarne la custodia cautelare, rallenta non solo l’attuazione di tale misura e facilita eventuali fughe, ma ha l’effetto di aggravare ulteriormente il carico e la lunghezza dei giudizi penali. Una ulteriore difficoltà all’attività delle Procure discenderebbe dai nuovi limiti che il ministro Nordio ha più volte dichiarato di voler porre all’uso delle intercettazioni, e in particolare di strumenti come il Trojan, peraltro rivelatesi essenziali in numerosi casi. Completa il pacchetto delle misure volute da Nordio l’impossibilità per la magistratura requirente del ricorso in appello in caso di assoluzioni in primo grado, unica misura proposta utile almeno a diminuire il carico pendente dei processi, ma di dubbia costituzionalità per la evidente disparità di trattamento tra accusa e difesa.

Sono queste le punte emergenti di una strategia palesemente tesa a preservare la classe politica dal controllo di legittimità della magistratura. Non è azzardato affermare che siamo tornati nell’opinione del guardasigilli Nordio ad una visione della magistratura requirente che – come nell’Ancien Régime – deve essere a servizio del detentore del potere politico; ma il procuratore del Re dell’Ancien Régime e i magistrati a lui sottoposti erano figure «serventi» che contrastano apertamente con il principio costituzionale dell’indipendenza e autonomia della magistratura tutta. Non a caso sulla critica alle misure del ministro Nordio si è avuta nel CSM una rara unanimità di giudizio dei magistrati di destra e di sinistra.

Quale conclusione trarre da questo excursus? Deve essere chiaro all’opinione pubblica che la battaglia per l’autonomia della magistratura contro le misure già annunciate da Nordio e contro la separazione delle carriere non è una scelta tra governo e opposizione, ma una battaglia per salvaguardare non solo un principio fondamentale della nostra Costituzione: l’indipendenza della magistratura, ma anche un principio costituente di ogni sistema democratico: la separazione e autonomia dei poteri. Non è esagerato affermare che è oggi in gioco una parte rilevante delle nostre libertà.

21 gennaio 2025



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