Questo è un articolo di gratitudine per Elon Musk formidabile esca per scemi, sì; ma anche di scuse agli autori di “M”, nelle cui puntate avevo sottovalutato il momento in cui Benito Mussolini dice la frase più pregna di spirito del tempo che abbia sentito da molto tempo, la frase che potrebbe sostituire ogni mio articolo, la frase che commenta ormai ogni ciclo di notizie, e quella frase è: «Più che lo schianto mi ucciderà la rottura di coglioni».
Con un tempismo straordinario, il tema dello Strands di ieri era “dated slang”, gergo sorpassato. Strands è uno dei giochini del New York Times con cui noi perdigiorno evitiamo di lavorare, è il più facile epperciò il mio preferito, ha preso presso le élite globalizzate il posto che una ventina d’anni fa – quando eravamo così dilettanti della perdita di tempo da perderlo su carta – aveva il Sudoku diabolico del Corriere.
In Strands devi individuare le parole nascoste in una schermata di lettere apparentemente a casaccio, e quelle parole attengono tutte a un tema del giorno, e quel tema del giorno è a sua volta una parola che devi individuare nel disordine (il tema, una volta individuato, è in giallo, e le altre parole quando le trovi diventano azzurre).
Tra le parole dello Strands di ieri ci sono espressioni gergali da me mai sentite (ma veramente “tubular” un tempo voleva dire “figo”? ma pensa te), ma anche parole che conoscevo, come “cherry” per dire “imene”.
“Cherry” la so perché in uno dei “Porky’s”, miei film di inconfessabile formazione, la ragazza sputtanava un adulto che era contro il gruppo di studenti sciamannati mettendosi a dire a voce altissima in un ristorante «Questo Shirley Temple è senza ciliegina, avevo tredici anni la prima volta che mi ha preso la ciliegina». E ora voi penserete che questo sia un articolo su quanto le commedie americane facevano più ridere quando sapevano sbeffeggiare il puritanesimo – e invece.
Ieri, mentre noi sfaccendate ci davamo all’enigmistica e i giornali di carta avevano in prima pagina il loro bravo Trump che giurava, i siti erano già proni allo spirito del tempo. «Anche i giornali più tromboni si piegheranno alla pressione della potente petulanza della brigata social», scriveva una Julie Burchill che citavo di recente, e ieri non era diverso dagli altri giorni.
Una delle prime cose che faccio al mattino, un altro dei modi con cui perdo tempo per rimandare l’inizio della giornata, è aprire un Instagram che uso per leggere squarci delle prossime centocinquanta vittorie della destra. Non le leggo sugli account degli scemi standard dell’internet, i Brocco81 che su Twitter (o come si chiama ora) hanno come massimo picco di gloria la volta che Diego Bianchi ha citato una loro battuta alla tele; no, io vado a vedere l’élite, le cui doti di analisi bisognerebbe capire quando esattamente siano scese sotto quelle di Brocco81.
Sull’Instagram di riserva io guardo gli account della sinistra più scombiccherata della storia di tutte le sinistre, quella formata da intellettuali che perlopiù conosco e ai quali a volte sono persino affezionata, ma che non riuscirebbero a capire il presente neanche sotto minaccia armata.
Le chattering classes che questo secolo può permettersi soffrono di una combinazione di fattori che rende la loro scemenza assai più interessante da studiare della scemenza di destra. C’è il presentismo, sì: si affrettano a dire che certo che Ugo è una donna, donna è un concetto filosofico, una monade senza finestre, un’ombra nella caverna, mica un misero elenco di organi anatomici. Sono terrorizzatissimi che qualcuno li liquidi come boomer, e quindi pronti a ogni postmodernismo.
In letale combinazione con questo presentismo, però, c’è l’avere strumenti di analisi fermi alla svolta della Bolognina. La gente è cafona? È colpa di Mussolini. La gente è avida? È colpa di Berlusconi. I social network sono pieni di puttanate? È colpa di Emilio Fede. Non si può più far conto sulla sanità pubblica perché siamo troppi e le casse di tutti gli stati troppo al verde? Macché: è che sono fascisti.
E quindi figurarsi se questi moscerini dell’attenzione e dell’analisi, se questa gente che si farebbe distrarre da qualunque ombra nella caverna intesa non come donna ma come ricordo dell’ultimo periodo storico studiato, se questi disastrosi intellettuali per cui il problema non è che i loro figli escono da scuola senza conoscere l’ortografia ma che i loro deputati a carnevale si mettono impresentabili costumi nazisti, figurarsi se questa massa distratta non dedicava la giornata al braccio teso di Elon Musk.
Quindi ieri mattina appena sveglia prendo l’iPad e li trovo tutti lì, una fila ordinata di zelanti nipoti di partigiani (cento milioni di partigiani avi degli attuali sessanta milioni di utenti con «antifa» nella bio social).
Dalla B di Berizzi («80 anni dopo. Dalla Liberazione dell’Europa dal nazifascismo al ritorno della Bestia» – maiuscole come nell’originale) alla V di Vagnoli («Il gesto più inequivocabile di tutti. Nonché il più violento che ci sia» – neanche avere un fidanzato che ti mena, a quanto pare, aiuta nella tassonomia dei gesti violenti).
Dalla C di Cuzzocrea («Saluti romani» primo punto d’un elenco che finisce con «annessioni di territori», evidentemente meno grave) alla M di Mauro («Disprezzo per la storia»): soltanto non si vedono i due liocorni.
Ora, il punto non è se Musk sia autistico e non sappia dove mettere le mani; se vi trolli e sapesse benissimo che oggi avreste titolato sul saluto romano abboccando tutti come tonni; se con la Meloni si mandino dei vocali in cui si cantano “Faccetta nera”; se abbia un gergo più sorpassato io che in quel gesto ho visto i «col cuore» di Barbara D’Urso, o se siate più fuoricorso voialtri che nell’eterna rincorsa al presente non riuscite mai a rinnovare le categorie critiche: «il nuovo fascismo» vale come «il nuovo Fellini», «il nuovo De André», «il nuovo Moravia» e tutti gli altri tic di pigrizia critica.
Il punto è: machissenefrega. L’altro giorno un tassista romano mi ha detto che stava per venire in visita a Bologna con la famiglia, e mi ha detto che gli avevano consigliato di portare i bambini a giocare in un parco. È il parco in cui sta la scuola elementare che frequentavo. All’epoca nel parco c’era uno zoo, e quindi davanti al cancello della scuola c’era la gabbia del leone (adesso c’è un giardino botanico).
E quindi ora voi penserete vi stia per dire che il politicamente corretto signora mia, e da piccoli potevamo vedere i leoni in gabbia e questi bambini di oggi solo su YouTube – e invece. E invece voglio parlarvi del tempo pieno che si faceva nella scuola dentro al parco.
Era la fine degli anni Settanta, cioè il periodo del film di Özpetek. A merenda la bidella portava un contenitore di plastica in cui stavano sparse decine di rosette (in milanese: michette) che con le nostre manine zozze e grassocce afferravamo gioendo moltissimo i giorni in cui ci toccava pane e nutella, e meno quando era il turno di pane e marmellata. E quindi ora penserete vi stia per dire che adesso ci sono degli standard igienici che ammazzano la poesia e una volta i Nas non ostacolavano la merenda – e invece.
E invece voglio parlarvi proprio del film di Özpetek, scritto da uno che non è stato bambino in Italia e da due che negli anni Settanta neppure erano nate, e in cui quindi la sarta indebitata non riesce a pagare la mensa scolastica al figlio. Ma, in quelle poche scuole in cui esisteva il tempo pieno, la mensa non si pagava. Erano i tempi in cui a scuola ti davano da mangiare gratis, in cui il medico curante veniva a visitarti a casa se non stavi bene, in cui non eravamo troppi e i nostri nonni non erano andati in pensione a quarant’anni e lo Stato aveva soldi per tutti.
Certo che ci sono gli Özpetek che non sono cresciuti qui e le trentenni convinte che il mondo sia sempre stato com’è ora, certo che sulla mancanza di memoria storica si può sempre contare; ma poi c’è tutt’un mondo di gente che non rivorrebbe il fascismo: rivorrebbe il benessere di quando il benessere non era la consegna della pizza a casa o il poter andare a Londra tutti i weekend.
Il peggioramento dello stato sociale, da anni recenti in cui ce lo potevamo permettere a ora che non basta per tutti e fa schifo per tutti, è mondiale. Domenica il Sunday Times raccontava la terrificante storia di Sharni Marks, che ha aspettato per un anno e mezzo che il Nhs, il servizio sanitario inglese, avesse un posto letto per farle una doppia mastectomia, e nel frattempo ovviamente le è venuto il cancro e qualunque complicazione e ora deve fare un’isterectomia. «Migliaia di pazienti dell’Nhs sono morti, sono diventati ciechi, o hanno sofferto di gravi complicazioni tra cui amputazioni degli arti a causa di ritardi e mancanze nelle loro cure».
Il crollo dello stato sociale è un problema così gigantesco che impatta persino sugli americani, che uno stato sociale praticamente non ce l’hanno. Certo, è più complicato farci i meme di quanto lo sia farli sul braccio teso di Elon. Si prendono meno cuori di quanti se ne prendano con le moraline e ci sono meno soluzioni semplici, anzi non ce ne sono proprio, neanche di complesse.
Però, non so come dirlo ai miei amici convinti che il problema sia un’ideologia d’un secolo fa, è per quello – the economy, stupid – che la gente vota le destre. Che magari il problema di troppa gente e non abbastanza risorse non lo risolveranno, ma sono meno efficaci nel trasmettere l’impressione di preoccuparsi sempre e solo di una gamma di puttanate che va dalle foto col braccio teso e i costumi di carnevale nazisti al diritto di Ugo di percepirsi mestruato.
Non vorrei rompervi il giocattolo della convinzione che, come spiegazione alle liste d’attesa negli ospedali, basti «è perché sono fascisti» (o «è colpa di quarant’anni di malgoverno retequattrista»), ma ecco: cercate di perdere meno tempo con le stronzate, per favore. Lo dico per voi che sennò continuerete a perdere in eterno, ma pure per me che temo che la rottura di coglioni mi uccida più velocemente dello schianto del servizio sanitario nazionale.
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