Il 1980 è stato un anno drammatico, forse il più drammatico, sicuramente il più nero per il nostro Paese e per la nostra democrazia. L’anno si apre con l’omicidio del presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella per mano della mafia comandata dai corleonesi, l’esponente della DC era l’erede designato di Aldo Moro ucciso dalle Br due anni prima. Sono gli anni di piombo. Il terrorismo rosso nel 1980 raggiunge il suo record con trenta vittime tra poliziotti, carabinieri, magistrati, industriali, manager, politici, tra questi il giurista Vittorio Bachelet vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura e il giornalista del Corriere della sera Walter Tobagi; il terrorismo nero fa sei vittime tra cui il giudice Mario Amato che indagava sulle connessioni tra la destra eversiva e la banda della Magliana che terrorizzava la capitale. La notte del 27 giugno sul cielo di Ustica viene abbattuto un aereo di linea. Il DC9 dell’Itavia, partito da Bologna, trova sulla sua rotta una vera e propria guerra aerea, un missile a ricerca termica lanciato da un caccia francese all’inseguimento di un Mig libico, che avrebbe dovuto avere a bordo il colonello Gheddafi, abbatte il DC9. Delle 81 persone a bordo nessuna sopravvive. Il 2 agosto 1980 un commando composto da cinque terroristi neofascisti, quattro appartenenti ai NAR e uno di Avanguardia Nazionale, mette una bomba di 23 chili di tritolo contenuta in una valigia nella sala d’aspetto di seconda classe della stazione di Bologna piena di turisti: 85 morti e 216 feriti. Strage ideata e finanziata dalla P2 di Licio Gelli con la collaborazione del banchiere Umberto Ortolani, Federico Umberto D’Amato capo dei Servizi Segreti, Mario Tedeschi giornalista e senatore del Movimento Sociale; una rete di potere formata dalla stessa loggia massonica collusa con l’estrema destra e i Servizi Segreti, con l’obiettivo di svuotare la democrazia dal suo interno. La strage della stazione di Bologna è il più grave attentato terroristico commesso nel nostro Paese nel secondo dopoguerra. In Italia le stragi, tutte le stragi avvenute durante gli anni di piombo, nascono per mano neofascista, vedono il coinvolgimento di uomini dello Stato che, con l’uso del depistaggio, hanno protetto gli stragisti responsabili della morte di tanti civili innocenti. Le stragi diventano strumento di “manipolazione politica della vita democratica”, come ha scritto Benedetta Tobagi “le stragi servivano a destabilizzare per stabilizzare il senso conservatore del Paese”.
Senza nulla togliere alle indagini della magistratura e degli inquirenti, cosa sarebbe successo alla giustizia e verità se non ci fosse stato il lavoro straordinario delle Associazioni dei famigliari delle vittime e dei loro collegi difensivi? E’ una domanda che ci dobbiamo porre soprattutto per l’uso continuo del depistaggio nonostante che nel 2016 sia diventato reato penale. Le stragi organizzate dal terrorismo nero, neofascista, sono una prova inequivocabile dell’esistenza del depistaggio compiuto da uomini delle istituzioni. Partiamo dalla fine. La recente sentenza della Cassazione ha confermato quelle di primo e secondo grato con la condanna definitiva all’ergastolo al terrorista dei NAR Gilberto Cavallini come quarto componente del commando che mise la bomba alla stazione di Bologna. Il gruppo, formato da Francesca Mambro, Valerio Fioravanti, Luigi Ciavardini, ha anche un quinto camerata: Paolo Bellini di Avanguardia Nazionale condannato anche lui all’ergastolo, in attesa della sentenza della Cassazione. Durante il processo a suo carico sono emerse prove inconfutabili dei rapporti tra Servizi Segreti e i NAR. Paolo Bolognesi, presidente dell’Associazione dei Familiari delle Vittime della Strage di Bologna, il giorno dopo la sentenza di condanna definitiva del neofascista Cavallini, ha dichiarato: “La verità si sa e le prove ci sono”. La verità processuale, ancora una volta, ha sgombrato il campo da “false teorie”. A distanza di quasi quarantacinque anni c’è chi ancora cerca di depistare inseguendo la strategia della P2 messa in atto dai Servizi Segreti deviati. Anche nei processi a Cavallini, i suoi avvocati, Gabriele Bordoni e Alessandro Pellegrini, hanno tentato più volte di mettere scompiglio alla ricerca di verità, ad esempio facendo riferimento in Cassazione alla pista palestinese e al terrorista Thomas Kram. Sempre i due avvocati, con l’aiuto di un alto rappresentante del Governo, hanno cercato, all’inizio del processo di secondo grado, di estrarre dal cilindro un bel coniglio bianco, tentativo fallito. All’inizio del dibattimento, Bordoni e Pellegrini, hanno chiesto l’annullamento del processo di primo grado – cioè tutto da rifare – perché nel frattempo quattro giudici popolari avevano superato i 65 anni. Su questo è intervenuto a sostegno il ministro della Giustizia Nordio che in Parlamento ha confermato l’esistenza di due casi in cui la Cassazione è intervenuta con l’annullamento del processo. Un intervento che inizialmente ha portato ombre e dubbi. Ignoranza o malafede? Successivamente lo stesso ministro, alla vigilia del 43°anniversario della strage, dopo duri attacchi dell’Associazione dei familiari delle vittime che hanno dimostrato la falsità delle sue dichiarazioni, si è dovuto correggere: “E’ stato chiarito che il requisito dei 65 anni come età massima dei giudici popolari delle Corti d’Assise, deve sussistere soltanto al momento della nomina”.
Il depistaggio, da quando è diventato reato penale, solo in un caso può non essere applicato, quando chi ha depistato, all’inizio del processo si pente e racconta la verità, in tutti gli altri casi va punito fino a un massimo di otto anni. Tutte le volte che politici alla Mollicone e alla Giovanardi o militari, come nel caso della strage di Ustica, che esprimono tesi più volte smentite in sede giudiziaria, sarebbe importante che la magistratura intervenisse perché non si tratta di libertà di pensiero ma di vero e proprio depistaggio, cioè di un reato penale come sta scritto nella legge.
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