“Sarebbe davvero bello se si potesse risolvere il problema senza dover fare questo passo ulteriore”, ha affermato Donald Trump dallo Studio Ovale davanti dalla stampa. Il soggetto in questione, o “il problema”, è il nucleare iraniano. Il “passo ulteriore”, invece, riguarda l’uso della forza contro i siti della Repubblica islamica. Bastone e carota, come consuetudine, Trump apre il discorso relativo all’accordo sul nucleare con l’Iran. “Si spera che lo raggiunga, ma anche se non lo facesse va bene lo stesso”. Parole che lasciano aperto uno spiraglio e che, soprattutto, smentiscono le aspettative.
A ottobre Joe Biden aveva pubblicamente sconsigliato il governo di Israele di colpire i siti nucleari iraniani in risposta all’attacco missilistico di Teheran. In quella occasione Trump aveva criticato il presidente, era un intervento improprio, secondo il tycoon, perché aveva di fatto tolto un’opzione allo Stato ebraico. La convinzione era che, una volta tornato alla Casa Bianca, Trump avrebbe quindi dato carta bianca al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu per colpire l’Iran, il nemico comune. E invece le prime dichiarazioni rivelano un primo approccio soft: incalzato dai giornalisti che gli chiedevano cosa pensasse di un attacco israeliano contro Teheran, Trump non ha risposto limitandosi a dire che se ne sarebbe occupato a breve. Persone vicine al capo della Casa Bianca affermano che, almeno nelle fasi iniziali del suo secondo mandato, l’intenzione è di intraprendere la via diplomatica con l’Iran, per regolare la questione del nucleare, accantonando così la strategia della “massima pressione” esercitata contro Teheran durante i primi quatto anni a Washington.
Anche il direttore dell’Agenzia Internazionale sull’Energia Atomica Raphael Grossi osserva una volontà dell’amministrazione repubblicana di aprire “una discussione e, forse, di andare verso un accordo”.
La conferma di questa volontà sta nelle scelte. A capo del dossier iraniano, Trump punta sull’inviato speciale per il Medio Oriente, Steve Witkoff, che ha già messo con grande energia ed efficacia il cappello sulla tregua a Gaza. “Il presidente è concentrato sulla risoluzione diplomatica, se è fattibile e se le persone rispetteranno i loro accordi”, ha spiegato a Fox News lasciando aperta la porta a qualsiasi scenario: “Se ciò non è possibile, allora l’alternativa non è necessariamente buona”. Il suo vice sarà Morgan Ortagus, uno che ha conoscenza delle questioni mediorientali e aveva già ricoperto il ruolo di portavoce del Dipartimento di Stato durante il primo governo Trump. Il nuovo alto funzionario per la regione al Pentagono sarà Michael DiMino, che nella sua esperienza alla Cia predicava moderazione con l’Iran. Così come contrario alla ritorsione militare è Elbridge Colby, candidato a sottosegretario alla Difesa.
Trump è convinto che con il suo ritorno “gli iraniani correranno al tavolo delle trattative”, come hanno riferito alcuni funzionari americani al canale israeliano Channel 12. Non è tuttavia così scontato. Teheran si è legata al dito il passo indietro compiuto nel 2018 da Trump, con cui decise unilateralmente di far uscire gli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare (Joint Comprehensive Plan of Action, Jcpoa) negoziato per anni dall’amministrazione di Barack Obama. E ogni volta che può, ricorda lo strappo per evidenziare la mancanza di fiducia negli americani.
Qualcosa però sembra essere cambiato anche nella Repubblica islamica, complice l’indubbia debolezza sullo scacchiere mediorientale e forse la presidenza di Masoud Pezeshkian, più aperto al dialogo rispetto alle anime più conservatrici del regime. L’approccio di Teheran è sicuramente diverso. Basta ascoltare quanto detto a Davos dal vicepresidente per gli affari strategici, Mohammad Javad Zarif, volto noto in Occidente: “Spero che questa volta Trump sarà più serio, più concentrato e più realistico”.
La decisione di Trump di escludere l’ex segretario di Stato Mike Pompeo e l’ex consigliere per la sicurezza John Bolton, coloro che lo hanno spinto a strappare il Jcpoa, è stata ben accolta dalla Repubblica degli ayatollah. Pompeo e Bolton, insieme all’ex rappresentante speciale per l’Iran Brian Hook, avevano supportato Trump anche nell’uccisione del capo dei pasdaran, il generale Qassim Suleimani, eliminato nel 2020 all’aeroporto di Baghdad. Ragion per cui Teheran aveva promesso vendetta, compreso Trump. Anche a distanza di anni, l’amministrazione Biden aveva ragione di credere che fosse una minaccia concreta e persistente. Nel 2022, infatti, era stato sventato un piano architettato dall’Iran per uccidere Pompeo e Bolton. Motivo per cui era stata confermata la protezione 24 ore su 24 per i soggetti sotto tiro, non senza avvertire Teheran che toccare un funzionario americano sarebbe equivalso a un atto di guerra. Tra le prime decisioni di Trump c’è stata anche quella di togliere la scorta ai suoi tre ex collaboratori. “Non puoi avere protezione per tutta la vita”, è stata la spiegazione del presidente. “Voglio dire, c’è un rischio per ogni cosa”. Per alcuni è una delle tante ritorsioni contro chi gli ha voltato le spalle: Bolton se ne era andato in malo modo, Pompeo aveva preso in considerazione di candidarsi, Hook è stato licenziato qualche giorno fa senza un motivo chiaro. Altri invece vedono in questa mossa una cinica apertura all’Iran. Fatta da Trump sulla pelle degli altri.
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