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Finalmente domenica 19 gennaio si è spento il fragore delle armi, dopo che per 467 giorni la morte ha mietuto con dovizia la sua messe nel campo di Gaza. Abbiamo tutti accolto questa notizia tirando un sospiro di sollievo come all’uscita da un incubo. Un sospiro di sollievo anche per la liberazione delle tre ragazze israeliane e delle donne e i minori palestinesi sequestrati nelle carceri israeliane. In realtà neanche nei peggiori incubi si potrebbero sognare le atrocità commesse su larga scala a Gaza da un esercito assetato di sete di vendetta, che non ha avuto remore a commettere i crimini più odiosi, calpestando impunemente le regole che la comunità internazionale si è data per mitigare la barbarie dei conflitti.
È probabile che la tregua sia il frutto delle pressioni che l’Amministrazione uscente e quella entrante negli Stati Uniti hanno esercitato su Netanyahu per indurlo ad attuare un accordo già raggiunto dai negoziatori alcuni mesi fa. Adesso che le armi si sono fermate, il problema è di evitare che possano riprendere la parola. La tregua è apparsa subito fragile poiché prima ancora che entrasse in vigore Netanyahu ha dichiarato: «Il cessate il fuoco approvato è temporaneo. Ci riserviamo il diritto di tornare in guerra». La tregua è stata subito contestata dai partiti religiosi tanto che il ministro Itamar Ben-Gvir è uscito dalla coalizione, mentre il ministro Bezalel Smotrich ha scelto di non dimettersi a precise condizioni che prevedono la distruzione di Hamas e la messa in sicurezza di Gaza con il mantenimento della presenza militare di Israele nella Striscia.
La destra religiosa ed il movimento dei coloni dal loro punto di vista non hanno torto a rimanere delusi per i risultati raggiunti da Israele.
Le prime ore di tregua ci hanno fatto vedere i miliziani di Hamas di nuovo nelle strade con le divise e le armi. Nella prima conferenza fatta dopo lo scatenamento dell’operazione “spade di ferro” Netanyahu, il 29 ottobre 2023, dichiarò che Israele aveva due obiettivi: distruggere Hamas e riportare indietro gli ostaggi. Dopo 15 mesi di attacchi e distruzioni forsennate, Hamas è ancora vivo, malgrado siano stati eliminati i suoi capi storici, e Israele è riuscito ad ottenere la restituzione degli gli ostaggi fin qui rilasciati solo attraverso un negoziato con il nemico che si voleva distruggere. In realtà l’obiettivo di eliminare Hamas appariva fin dall’inizio impossibile trattandosi di un movimento generato dalle sofferenze che Israele ha inflitto ed infligge ancora alla popolazione palestinese dei territori occupati. Più sono atroci le sofferenze inflitte alla popolazione e più cresce l’odio e lo spirito di ribellione. Non c’è da meravigliarsi quindi se i giovani sopravvissuti alle bombe israeliane, alla fame, alla sete, alle malattie, alla morte dei loro genitori o dei loro coetanei possano sentire il bisogno di prendere le armi e di rimpiazzare i miliziani eliminati. Per queste ragioni non si può eradicare Hamas senza compiere un vero e proprio genocidio. Israele ce l’ha messa tutta per sottoporre la popolazione di Gaza a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica totale o parziale (art. 2 della Convenzione sul genocidio del 1948), ma a un certo punto si è dovuta fermare perché non siamo nel 1944 e non è possibile distruggere un intero popolo alla luce del sole. Resta forte il rischio che Israele voglia riprendere il “lavoro” interrotto. Infatti, adesso che le armi si sono momentaneamente fermate a Gaza, la guerra è stata spostata in Cisgiordania con l’operazione “muro di ferro” contro la città di Jenin, roccaforte della resistenza armata. Tutto ciò mentre resta alto il pericolo di un attacco di Israele ai siti nucleari iraniani, se autorizzato da Trump.
Perché la tregua resista bisogna dire la verità, far capire ad Israele e ai suoi sostenitori nelle Cancellerie dei paesi occidentali che il sogno del sionismo religioso di appropriarsi definitivamente dei territori occupati, schiacciando e scacciando la popolazione residente in quel territorio che nella Bibbia è stato promesso al popolo ebraico, genera mostri e produce catastrofi, inchiodando lo Stato di Israele in una condizione di eterna insicurezza e belligeranza.
Se si vuole arrestare questa logica di guerra infinita e far sì che la tregua si consolidi (a Gaza come in Cisgiordania) e apra la strada ad una soluzione di pace, è indispensabile contrastare il senso di onnipotenza dei governi israeliani assicurato dall’impunità di cui hanno per troppo tempo goduto. Le deboli istituzioni di garanzia del diritto internazionale hanno emesso dei segnali che devono essere valorizzati, a partire dal mandato d’arresto contro Netanyahu e Gallant emesso dalla Corte penale internazionale e dal procedimento per violazione della Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio in atto presso la Corte internazionale di giustizia. In tale contesto, particolarmente importante è il parere consultivo emesso da quest’ultima il 19 luglio 2024, che ha dichiarato illegale la prosecuzione dell’occupazione dei territori conquistati con la guerra del 1967 (Gerusalemme est, Gaza e la Cisgiordania) e ha stabilito che Israele deve porre termine all’occupazione, rimuovere gli insediamenti e consentire la nascita di uno Stato palestinese.
Entrata in vigore la tregua, si discute come Gaza debba essere governata. Il cessate il fuoco è una condicio sine qua non per avviare un percorso di pace ma non è sufficiente se non vi è un progetto per il futuro. L’Autorità Nazionale Palestinese si è dichiarata disposta ad assumersi la responsabilità di amministrare la Striscia, altri sostengono che la resistenza di Hamas, sopravvissuto all’inferno di fuoco scatenato da Israele, ne legittima il governo (Orsini, il Fatto quotidiano del 21 gennaio). In realtà né ANP, né Hamas possono svolgere un ruolo efficace nella gestione dell’immediato dopoguerra. Gaza è stata resa invivibile, occorreranno degli sforzi enormi per ripristinare i servizi e le strutture essenziali per la vita della popolazione. Tutto ciò non sarà possibile fin quando Israele pretenderà di mantenere il controllo di sicurezza sulla Striscia di Gaza.
È giunto il momento di reclamare la fine dell’occupazione: Israele non ha alcun diritto di mantenere il suo controllo sul territorio e sulla vita della popolazione di Gaza, deve togliere il suo scarpone chiodato dal collo dei gazawi. Non è una chimera, si tratta di un preciso obbligo giuridico, come statuito dalla Corte Internazionale di Giustizia con la sua pronuncia del 19 luglio 2024. Per distaccare Gaza dal controllo mortifero di Israele deve intervenire un terzo soggetto. La Comunità internazionale attraverso l’ONU può favorire il distacco di Israele da Gaza con una soluzione transitoria. Ciò può avvenire con una risoluzione del Consiglio di Sicurezza, adottata a norma del capitolo VII della Carta (come in passato avvenne per il Kosovo, che fu distaccato dalla Serbia e sottoposto a un’amministrazione ad interim delle Nazioni Unite, in virtù della Risoluzione 1244 del 10 giugno 1999). La Palestina è stata già un Mandato britannico, oggi per la Striscia di Gaza si può resuscitare una sorta di Mandato affidato alle Nazioni Unite. Un’amministrazione civile e militare dell’ONU dovrebbe liberare gli ostaggi, se ancora sequestrati, e procedere al disarmo di Hamas e della Jihad islamica, che potrebbero restare attivi come partiti politici assieme ad altri, impedire che dal territorio della Striscia possano partire atti di ostilità contro Israele, affrontare tutte le emergenze causate dalla guerra, rimettere in funzione le strutture sanitarie, ripristinare le telecomunicazioni, i collegamenti aerei e marittimi della Striscia con il resto del mondo, avviare la ricostruzione e ogni altro programma indispensabile per consentire alla popolazione civile di superare i traumi prodotti dai massacri e dalle privazioni causate dai lunghi anni di assedio a cui sono stati sottoposti. L’Amministrazione dell’ONU dovrebbe promuovere la creazione, in attesa di una soluzione definitiva, di una sostanziale autonomia e auto amministrazione della Striscia di Gaza nella quale possano svolgere un ruolo tutte le componenti politiche presenti nella società palestinese, una volta deposte le armi.
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