La premier e il Guardasigilli tacciono, lasciando campo a un improbabile quanto risibile “errore procedurale”. Ma FdI in parte ammette: “C’era il rischio di una crisi con la Libia”
Nel solito, proverbiale “Paese normale” lo scandalo della liberazione e rimpatrio di lusso del torturatore libico Almasri sarebbe una di quelle granate che fanno tremare un governo dalle fondamenta.
Nonostante il tentativo goffo di minimizzare e derubricare a non chiarissimo “problema tecnico” il governo in causa se ne rende conto. Solo così si spiegano il nervosismo palese e l’assenza di cautela, per lui tutt’altro che consueta, del ministro degli Esteri Tajani. La Corte Penale Internazionale protesta per la fulminea scarcerazione, chiede “chiarimenti”. Tajani replica a muso duro che la Corte “non è il Verbo, non è la bocca della verità”, come se la stessa Corte non fosse pienamente riconosciuta dall’Italia, pertanto tenuta a rispettarla se non come Verbo come istituzione che amministra la giustizia.
Le testimonianze sono esplicite. Quella del portavoce dell’organizzazione Refugees in Lybia David Yambio è diretta: “Sono stato torturato da Almasri nel lager di Mitiga che dirigeva”. Il governo si nasconde dietro l’errore procedurale ma evita di specificare nel dettaglio anche cosa si intenda con la totalmente incredibile formuletta: “Risponderemo nel dettaglio nelle sede adeguate”. Quando e soprattutto che “risponderà” è ulteriore elemento circondato da non casuale vaghezza. Dovrebbe essere Giorgia Meloni perché è del tutto escluso che l’aereo levatosi in volo a strettissimo giro per riportare in Libia il torturatore, acciocché fosse accolto con tutti gli onori, non dipendesse da una scelta di palazzo Chigi, dunque della stessa premier. La segretaria del Pd Schlein la incalza: “Non è possibile che non ci fosse un coinvolgimento diretto di palazzo Chigi. Meloni la smetta di nascondersi dietro i suoi ministri e si prenda la responsabilità di venire a chiarire cosa è successo”.
Lo chiedono anche i capigruppo Boccia e Braga, lo chiede Italia viva con la coordinatrice Paita, lo chiedono Magi di +Europa e Avs. La premier tace. Non è la sola a nascondersi. La storiella dell’errore procedurale che avrebbe reso illegittima la detenzione del generale e pertanto avrebbe provocato una grave crisi con la Libia (parola dell’eurodeputato FdI Procaccini, copresidente dei Conservatori) dovrebbe almeno chiamare direttamente in causa Nordio, perché nel caso la responsabilità sarebbe direttamente sua. Il procuratore di Roma afferma infatti senza perifrasi di aver “interessato il ministro” appena ricevuti gli atti dalla Questura di Torino. La richiesta di convalida dell’arresto da parte del ministro avrebbe sanato tutte le “irritualità” che costituiscono oggi l’alibi risibile del governo. Quella di Nordio è stata una scelta politica, per la quale, se davvero la avesse presa da solo o se questa fosse comunque la versione ufficiale, le dimissioni sarebbero un atto dovuto. Anzi lo sono, e il silenzio del guardasigilli è sconcertante come quello della premier. E altrettanto profondo.
Va da sé che una scelta simile non può essere stata presa dal ministero di via Arenula senza un’indicazione precisa di palazzo Chigi. L’Italia ha scelto di ignorare la Corte della quale pure fa parte e di mettere in libertà un uomo con responsabilità enormi e sanguinose per non turbare i rapporti con la Libia, alla quale resta delegato in buona parte il compito di fermare il flusso di migranti e con quali mezzi non è mai interessato molto a nessun governo, né di destra, né di sinistra né di centro. Ma è probabile che nella fretta sgangherata con la quale l’Italia si è affrettata a rispedire libero in Libia il direttore del lager di Mitiga non ci fosse solo la necessità di non irritare gli amici libici, che spesso sono proprio i trafficanti che l’Italia dovrebbe combattere.
È possibile che circolasse soprattutto il timore di rivelazioni del generale sugli accordi tra Italia e Libia, con l’obiettivo di fermare i migranti a ogni costo, ignorando i legami strettissimi, spesso anzi la sovrapposizione piena tra la Guardia Costiera finanziata dall’Italia e i trafficanti. L’opposizione, ieri, è sembrata decisa a non mollare la presa. La richiesta di “chiarimenti” della Corte Penale non può essere risolta con le frasi di straordinaria gravità buttate là da un Tajani imbarazzatissimo. La vicenda non è destinata a finire sepolta in pochi giorni come si augurava il governo e alla fine a rispondere della liberazione di Almasri dovranno essere proprio i due ammutoliti: Giorgia Meloni e Carlo Nordio.
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