L’intervista a Mariangela Paone a cura di Maurizio Bongioanni per la rivista Altreconomia.
Paone, lei ha raccolto questa storia lentamente, nel corso di diversi anni. Può raccontarci com’è nato il libro?
Vivo a Madrid da molti anni e lavoro spesso sui temi dell’immigrazione. Capita di imbattersi in vicende che, anche dopo averle raccontate, non ti lasciano più, rimangono impresse nella mente. È quello che è accaduto con la storia di Rezwana. Dopo aver raccontato il drammatico naufragio che ha segnato la sua vita, non riuscivo a smettere di pensarci. La sua vicenda è immensa nella sua tragicità: a soli 13 anni, perde tutta la sua famiglia -padre, madre, una sorella di 11 anni, un fratello di cinque e una sorellina di appena 14 mesi- proprio alle porte d’Europa. Si ritrova in un Paese che non conosce, senza sapere nulla della cultura né della lingua, fatta eccezione per qualche parola in inglese. Chiunque può immaginare il peso di una tragedia simile su una ragazza di 13 anni. Rezwana non era partita come minore non accompagnato, ma lo è diventata. Questa storia mi ha inseguita, non mi lasciava andare. Così ho iniziato a raccogliere informazioni su di lei, chiedendo ai volontari che l’avevano conosciuta. E da lì è cominciato tutto.
Rezwana è riuscita ad arrivare in Svezia per ricongiungersi con una sua parente. Cosa è successo poi?
Dopo il naufragio, la Svezia non ha accettato il ricongiungimento familiare con la prozia, l’unico legame rimasto a Rezwana in Europa. E così non rimaneva che la via dell’asilo in Grecia. Dopo averlo ottenuto, Rezwana ha comunque raggiunto la Svezia e da minorenne ha studiato lì per due anni, affrontando la sua nuova vita con determinazione: in solo nove mesi ha imparato lo svedese. Ma al compimento dei 18 anni, la Svezia ha applicato rigidamente il Regolamento di Dublino, decidendo di rimandarla in Grecia, il primo Paese in cui era stata “accolta”. Hanno sostenuto che non ci fossero motivi per considerare la Grecia un luogo inadeguato, ignorando il fatto che lì Rezwana aveva perso tutta la sua famiglia e non aveva nessuno. Anzi, le autorità l’hanno avvisata di non opporsi alla decisione, ricordandole che altri prima di lei erano stati rimandati direttamente in Afghanistan. Ho saputo che sarebbe stata rimandata in Grecia grazie a un post su Facebook della volontaria norvegese che aveva seguito il suo caso sin dall’inizio e che per prima mi aveva raccontato la sua storia. Ho pensato di contattarla. Quella storia, per me, era l’emblema delle falle del sistema europeo di asilo e delle assurdità di una burocrazia cieca.
Rezwana le ha chiesto di darle una mano per ritrovare la sua famiglia?
Durante i nostri primi contatti -che avvenivano in videochiamata, visto che era il periodo della pandemia- lei era ormai maggiorenne e desiderava raccontare la sua esperienza. Nell’agosto 2021 sono finalmente andata ad Atene per incontrarla di persona, pochi giorni dopo il ritorno dei Talebani a Kabul. Fu in quel momento che lei mi chiese: “C’è un modo per scoprire che cosa è successo alla mia famiglia?”. Una domanda enorme. Come giornalista, ho sempre avuto chiaro fin dove arriva il mio ruolo di reporter, ma in quel momento non sono riuscita a tirarmi indietro. Non sapevo nemmeno da dove partire ma poi è successo qualcosa di incredibile: una rete di persone, che nel libro definisco i “fili invisibili”, si è messa in movimento gratuitamente per cercare risposte. E nel giugno 2022, sono tornata con Rezwana a Lesbo, dove non metteva piede dal giorno del naufragio per visitare il cimitero dove sono sepolti sua madre, suo fratello e sua sorella. Lapidi fino a quel momento senza nome e a cui lo abbiamo dato. Quel viaggio ha permesso a Rezwana di iniziare, almeno in parte, a elaborare il lutto che aveva lasciato in sospeso per tutti quegli anni. Rezwana non ha ancora notizie di suo padre e della sorellina più piccola, ma quel viaggio è stato un passo fondamentale per affrontare il dolore e permettere, almeno in parte, una chiusura. Gli esperti parlano di “perdita ambigua”, una sofferenza che nasce dall’incertezza: per esempio, la zia di Rezwana, si aggrappa all’idea che il padre possa essere ancora vivo, magari smarrito senza memoria da qualche parte in Europa. Rezwana è stata molto coraggiosa nell’affrontare tutto questo.
Per questo nel libro insiste molto sull’importanza di questa parte della sua storia.
Molti si concentrano solo sul naufragio – un evento cruciale, certo – e sul fatto che una bambina sia rimasta sola in Europa, intrappolata nella burocrazia. Ma il percorso per affrontare la perdita è altrettanto significativo. In futuro ci saranno sempre più persone come Rezwana che cercheranno i propri cari morti o dispersi lungo le rotte migratorie. Pensiamo a quante risorse vengono mobilitate, giustamente, quando un cittadino italiano è disperso. Lo stesso tipo di attenzione dovrebbe essere garantito anche per i migranti, che invece vengono dimenticati. Il caso di Rezwana si è risolto solo grazie a una rete di contatti, formali e informali, che si sono attivati per aiutarla. È un diritto fondamentale: come dice Natassa Strachini, l’avvocatessa che è stata decisiva in questa vicenda, il diritto al lutto è l’ultimo diritto umano. È essenziale che una famiglia possa piangere i propri cari e che a chi è scomparso venga garantita una degna sepoltura. Eppure, non esistono protocolli chiari per affrontare queste situazioni. Siamo totalmente impreparati di fronte a un fenomeno che continuerà ad aumentare nei prossimi anni.
Qual è la sensazione di una persona che come lei segue il tema dell’immigrazione da così tanto tempo? Secondo lei la situazione sta peggiorando?
È in atto una profonda erosione del diritto d’asilo in Europa. Parlare con la naturalezza con cui lo si fa oggi di creare centri offshore o di subappaltare l’accoglienza in Paesi terzi era qualcosa di impensabile fino a un decennio fa. Questa normalizzazione ha costi enormi. Il primo, e più grave, è l’erosione del diritto d’asilo stesso. Quando un diritto fondamentale viene intaccato, diventa più facile compromettere altri diritti, e questo è estremamente preoccupante. Ma quello che inquieta di più è l’indifferenza verso questa erosione, perché si ritiene che riguarda “gli altri”, persone considerate lontane o estranee. Guardiamo cosa sta accadendo con la Siria: tutti speriamo in una stabilizzazione del Paese. Ma è stato sconvolgente vedere qual è stata la prima reazione dei governi europei dopo la caduta di Assad: nemmeno 48 ore dopo, si parlava già di rivedere i permessi di asilo e residenza concessi ai siriani. Questo riflesso, quasi automatico, è stato per me un segnale desolante. Piuttosto che preoccuparsi del futuro del Paese o delle persone coinvolte, la priorità è stata ridiscutere i diritti concessi. È una pagina molto triste della storia recente europea, che dimostra quanto il dibattito su questi temi si sia spostato verso una logica sempre più distante dai valori fondamentali di solidarietà e protezione.
Come giudica la situazione attuale tra i Paesi europei? Possiamo dire che la Spagna rappresenta un esempio positivo rispetto alla Scandinavia?
Ci sono molti distinguo da fare. La Spagna ha i suoi problemi e le sue contraddizioni. Ad esempio, gestisce la migrazione sulla sponda occidentale del Mediterraneo tramite vari accordi, come quelli con il Marocco, che sollevano questioni etiche e politiche. D’altro canto, il governo di centrosinistra ha introdotto misure per migliorare le condizioni dei minori non accompagnati, superando lacune normative che lasciavano questi giovani in un limbo al compimento dei 18 anni. Per quanto riguarda la Scandinavia, la deriva delle politiche migratorie è evidente. Paesi come Danimarca e Svezia sembrano rincorrere la destra estrema nel tentativo di arginare la perdita di consenso. Un approccio cinico e miope: storicamente, gli elettori finiscono per preferire l’originale alla copia. L’estrema destra continua a guadagnare terreno e questo fenomeno ha un effetto contagio che coinvolge anche partiti di altri orientamenti politici, normalizzando idee una volta marginali e portando a una generale radicalizzazione del dibattito pubblico.
Qui l’intervista completa su Altreconomia.
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