Con il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca è partito in modo spettacolare il treno della competizione fiscale. L’intenzione è quella di far crollare dal 21% al 15% la tassazione in Usa sulle imprese, per forza di cose attraendo risorse e investimenti negli Stati Uniti.
Davanti a questa mossa, serve a poco gridare contro un presunto nuovo “paradiso fiscale”: semmai, se qualcuno in Ue avesse testa fredda e un minimo di razionalità residua, si tratterebbe di fare in modo che i nostri paesi smettano di essere “inferni fiscali”, scegliendo a nostra volta di abbassare l’imposizione tributaria.
Per capirci, occorrerebbe procedere in direzione opposta rispetto alla strada caldeggiata in passato dagli eurolirici: quella (terrificante) di un ipotetico ministro delle finanze unico europeo, cioè un pilota automatico imposto da Bruxelles a tutti i parlamenti nazionali, la fine di ogni speranza di competizione (anche di un sano federalismo competitivo!), e l’imposizione di un regime fiscale uniforme. La chiamano “armonizzazione”: parola dolce che nasconde l’amara imposizione della “soluzione unica”. La verità è che siamo al cuore di due visioni e di due filosofie opposte.
LA CATTIVA LEZIONE FRANCESE
La prima fu sintetizzata dal presidente francese Macron proprio nel suo discorso inaugurale dopo la sua prima elezione, nella serata per lui trionfale del Louvre. Quel «vi proteggerò» ripetuto ossessivamente, in particolare, alimentava un’attesa oscillante tra la dimensione mistica e quella stato-centrica (per non dire stato-latrica): non a caso, i pochi saggi già pensavano in quel momento a quando i “protetti” sarebbero rimasti delusi, com’è inevitabilmente successo.
Ecco, se lo stato ti dice: «Ti proteggerò», un buon liberale, dopo essersi spaventato, dovrebbe rispondere: «Piuttosto lasciami in pace!». Più volte ho commentato e recensito il libro Leave us alone del grande Grover Norquist, il guru statunitense di Americans for tax reform, oggi gran sostenitore di Trump. Il senso del suo messaggio sta proprio qui, in quest’alternativa radicale: da una parte quelli che vogliono la protezione e l’assistenza dello stato (tasse alte, spesa alta, debito alto, concertazione continua, sindacato onnipresente, giovani generazioni depredate, welfare collassante), dall’altra chi – invece – vuole difendere la propria libertà in primo luogo dall’ingerenza costosa e asfissiante dello stato (lavoratori del privato, imprenditori, professionisti, partite Iva, studenti, outsider, esclusi di ogni tipo, ecc). O di qua o di là. Mai dimenticarlo.
Torna utile un’altra indimenticabile battuta di Ronald Reagan, il quale amava ripetere che le parole più terrificanti che un cittadino possa ascoltare sono: «Sono del governo, e sono qui per dare una mano…». Proprio Norquist può aiutarci a capire di cosa stiamo parlando. Non è solo una questione di tasse, non è solo una questione di numeri nel bilancio pubblico (pur rilevantissimi, ovviamente!): serve un più generale arretramento dello stato, un ridimensionamento del perimetro del “pubblico”, e una rinnovata fiducia nella capacità degli individui, delle famiglie e delle imprese di fare da sé, alleggeriti dal peso di uno stato onnipresente e invasivo. Quella proposta da Norquist, dunque, non è (solo) una politica economica, ma una politica a tutto tondo. Significa assumere un punto di vista: quello dei taxpayers, cioè dei contribuenti; quello delle imprese, specie medie e piccole; quello dei lavoratori autonomi, e insieme dei lavoratori dipendenti del privato; di tutti gli outsider rispetto al perimetro dei privilegi e delle tutele esistenti; di tutti quelli che vivono nella trincea non protetta del mercato, della competizione, del rischio. È – per capirci – quello che sta mirabilmente facendo il presidente Milei in Argentina.
Questo non vuol dire essere ideologicamente e ossessivamente “contro” lo stato, in una prospettiva anarcoide: vuol dire puntare a limitarne il ruolo. Non vuol dire essere contro i dipendenti pubblici: anzi, la parte più dinamica e qualificata del pubblico impego (in particolare, dice ad esempio Norquist, quella che lavora per difendere la libertà e la proprietà, quindi forze dell’ordine, forze armate, forze di polizia, e non solo) è naturalmente parte della “Leave us alone-coalition”, cioè del modello di coalizione politica vagheggiata da Norquist. Ma un centrodestra moderno deve capire che il tema non è “essere moderati”, non è puntare verso il “centro” inteso come una sorta di “luogo geografico”: al contrario, si tratta di seguire con coerenza e radicalità una linea-guida che sia facilmente riconoscibile da una maggioranza sociale che, in genere, esiste nei paesi dell’Occidente avanzato.
GLI ESPROPRIATORI
Norquist non dimentica gli avversari, naturalmente. E qui sembra proprio descrivere chi ha dominato in Europa negli anni passati, e, paese per paese, quel mainstream che ha egemonizzato la politica e la cultura “ufficiali”. Contro la “Leave us alone-coalition” c’è infatti un’altra coalizione, che Norquist chiama perfidamente la “Takings coalition”, cioè, per tradurla in modo comprensibile, la coalizione dei prenditori-espropriatori.
Norquist non insulta, ma descrive gli obiettivi (e i vizi) degli statalisti tradizionali: redistribuire, cioè prendere da qualcuno per dare a qualcun altro, con un’enfasi che fatalmente si sposta dal momento della creazione della ricchezza (come sarebbe invece necessario) a quello del suo spostamento-trasferimento-redistribuzione. Chi fa parte di questa coalizione? Sindacalisti, apparati pubblici e parapubblici, e pure chi è in una condizione di dipendenza dal welfare e dai benefici pubblici, più (e qui la descrizione è giustamente spietata) quelle organizzazioni “non governative” che in realtà sono ormai “ultragovernative”, perché vivono appoggiandosi al pubblico.
La notizia però è che con Trump l’America si rimette in condizione di correre, non solo di camminare. Nei nostri sistemi di mercato, le risorse e gli investimenti sono come aerei in volo, che devono scegliere l’“aeroporto” dove atterrare, e tendono a farlo dove trovano condizioni migliori: fisco basso, burocrazia leggera, giustizia civile funzionante, sindacati non onnipotenti.
Ecco, proviamo a proiettare questo ragionamento sul “grande schermo” del confronto tra Usa e Unione Europea, tra chi sceglie il dinamismo e chi invece si abbarbica alle protezioni, e avremo una visione insieme nitida e cupa di quanto può accadere e accaderci.
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