L’Anima della meccanica italiana in cerca di resurrezione. Pietro Almici su crisi e possibili soluzioni

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«Le sorti della meccanica italiana nel 2025? Dipenderanno molto dall’esito delle elezioni federali in Germania del 23 febbraio e dalla stabilità politica in Francia». Lo afferma Pietro Almici, imprenditore titolare della azienda di costruzione di apparecchi di sollevamento pesante e gru per l’industria Carpenteria Meccanica Almici nonché presidente di Anima Confindustria, la “Federazione delle associazioni nazionali dell’industria meccanica varia e affini”. Anima è un riferimento per la meccanica in Italia: rappresenta oltre mille imprese (tra le quali Ansaldo Energia, Fincantieri, Marcegaglia, Riello, Tenaris, Tenova) organizzate in 34 associazioni di categoria, che operano in settori strategici come l’energia, la movimentazione, le macchine per l’industria alimentare, e l’edilizia, con un focus sui beni strumentali. Ecco, queste aziende nel 2024 hanno sperimentato nel complesso un calo nominale nei volumi dello 0,4%, che corrisponde ad un calo reale del 4% se si tiene conto degli effetti dell’inflazione. Nel complesso il settore della meccanica vale 55,5 miliardi di fatturato e dà lavoro a 220mila persone. Ma che c’entrano la Germania e la Francia? Perché Almici si riferisce a questi Paesi? Il fatto è che sono centrali per comprendere le politiche dell’Ue: tradizionalmente rappresentano le economie trainanti e i principali decisori.

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Ora, per Almici, il Green Deal dell’UE ha causato difficoltà sia all’industria tedesca sia alla meccanica italiana a causa di un approccio troppo rigido e poco realistico. La transizione ecologica, pur basata su obiettivi condivisibili, è stata impostata con scadenze e regole che non tengono conto delle reali capacità di adattamento delle imprese. Questo ha messo sotto pressione settori strategici come l’automotive, oltre a comparti come quello delle caldaie a gas, penalizzati da normative che non offrono alternative praticabili. A peggiorare la situazione, i costi energetici elevati e la mancanza di un sostegno sufficiente hanno ridotto la competitività delle imprese, spingendole a rallentare gli investimenti.

Secondo Almici per rendere la transizione economicamente sostenibile, l’UE dovrebbe garantire tempi più lunghi e incentivi concreti, evitando di sacrificare interi settori sull’altare dell’ideologia. Ma questo realisticamente non accadrà mai se alle elezioni per il nuovo Bundestag dovessero prevalere forze espressione del fanatismo green, e se in Francia non emergessero coalizioni pragmatiche e focalizzate sulla centralità dell’industria. Quale sia la posizione del nuovo esecutivo guidato da François Bayrou non è affatto chiaro.

Quanto al governo italiano per aiutare la meccanica deve rendere gli incentivi come il piano Industria 5.0 stabili e strutturali, dando alle aziende certezze e strumenti di lungo termine per pianificare gli investimenti in modo efficace. In secondo luogo, è necessario semplificare la burocrazia, riducendo i vincoli amministrativi e le procedure complesse che spesso rallentano l’operatività delle imprese e aumentano i costi di gestione. Infine, il governo dovrebbe potenziare le agevolazioni fiscali, come la mini-Ires, per aiutare le aziende a reinvestire i profitti in attività produttive e innovazione.

D: Secondo un sondaggio di qualche mese fa di Anima relativo al secondo semestre del 2024, il 37,5% delle aziende prevedeva una diminuzione delle vendite rispetto al 2023, con il 20% delle imprese che stimava un calo del fatturato superiore al 5%. Inoltre, il 45% delle imprese meccaniche ha registrato una contrazione degli ordinativi. Considerando anche il costante calo della produzione industriale, con una flessione del 4,9% per i beni strumentali a novembre, qual è la situazione generale del settore?

Pietro Almici, imprenditore titolare della azienda di costruzione di apparecchi di sollevamento pesante e gru per l’industria Carpenteria Meccanica Almici nonché presidente di Anima Confindustria

R: Il quadro generale del settore meccanico, sulla base dei dati raccolti, è preoccupante. Nel 2024, le imprese aderenti ad Anima hanno registrato una contrazione dello 0,4% in termini di valore assoluto rispetto all’anno precedente; tuttavia, se consideriamo il dato reale, depurato dall’inflazione, la contrazione è del 4%, evidenziando una significativa riduzione dei volumi produttivi. Questo fenomeno può essere spiegato osservando come l’aumento dei prezzi mascheri una realtà più difficile: vendiamo meno, ma a un prezzo unitario più alto. È un effetto dell’inflazione che pesa ulteriormente sulla domanda e sul potere d’acquisto delle imprese e dei consumatori.

D: Quali sono, secondo lei, le principali cause di questo andamento?

R: Le cause di questa situazione sono molteplici e vanno analizzate sia a livello internazionale che interno. Sul piano internazionale, i conflitti geopolitici stanno avendo un impatto significativo. La guerra tra Russia e Ucraina ha stravolto le catene di fornitura, aumentato i costi delle materie prime e creato una forte instabilità economica. Anche il conflitto in Medio Oriente contribuisce a generare incertezza sui mercati. In Europa, il rallentamento della Germania, a partire dalla fine del 2023, ha avuto un impatto diretto su molte industrie italiane che dipendono da quel mercato, soprattutto nei settori legati all’automotive e alla componentistica.

A partire dal 2020 la Germania appare priva di quella spinta economica che aveva contraddistinto il decennio precedente: ha ripreso i livelli pre-pandemia soltanto a inizio 2022 e a fine 2022 l’economia si è inceppata di nuovo. (Fonte: Confindustria).

Alcune aziende italiane sono riuscite a compensare le perdite diversificando le esportazioni e puntando sugli Stati Uniti, dove la domanda è rimasta relativamente stabile. Tuttavia, anche questo mercato presenta rischi: un possibile ritorno di Trump alla presidenza potrebbe portare a nuove barriere commerciali, come dazi o restrizioni all’importazione. Inoltre, i costi energetici continuano a crescere, erodendo i margini delle imprese, mentre la domanda interna europea rimane stagnante. Questa combinazione di fattori rende difficile per le aziende pianificare investimenti a lungo termine e mantenere una crescita stabile.

D: Quali segmenti del settore stanno soffrendo di più? 

R: I segmenti più colpiti sono quelli legati all’edilizia, in particolare i produttori di caldaie e pompe di calore. Negli anni passati entrambi avevano beneficiato in modo significativo di incentivi come Ecobonus e Superbonus, che avevano stimolato la domanda soprattutto con strumenti quali la cessione del credito e lo sconto in fattura; ora la riduzione di queste misure ha portato a un brusco rallentamento. Inoltre c’è il tema dei prezzi dell’energia elettrica, che va risolto per non vanificare i benefici ambientali delle nuove tecnologie, con dei costi in bolletta non coerenti. Le politiche green dell’Unione Europea stanno spingendo verso la transizione energetica, limitando la commercializzazione di prodotti alimentati da combustibili fossili. Questo richiede alle aziende di ripensare completamente i loro modelli di business e di investire in nuove tecnologie, ma non tutte le imprese hanno le risorse per farlo in tempi brevi e d’altra parte non sono ancora stati chiariti gli scenari di possibile utilizzo dei gas rinnovabili in ambito civile, ambito verso il quale i produttori stanno spingendo.

D: Entrando nello specifico, veniamo alla citata frenata del mercato tedesco: rappresenta un rischio significativo per l’industria meccanica italiana. Quali strategie potrebbero mitigare questi effetti? Esistono mercati alternativi oltre agli Stati Uniti?

I segmenti più colpiti sono quelli legati all’edilizia, in particolare i produttori di caldaie e pompe di calore. Negli anni passati entrambi avevano beneficiato in modo significativo di incentivi come Ecobonus e Superbonus, che avevano stimolato la domanda soprattutto con strumenti quali la cessione del credito e lo sconto in fattura; ora la riduzione di queste misure ha portato a un brusco rallentamento.

R: La Germania è da sempre un mercato chiave per l’industria meccanica italiana. Le esportazioni verso questo paese rappresentano una parte fondamentale del nostro fatturato. Tuttavia, per mitigare l’impatto della frenata tedesca, dobbiamo puntare su mercati emergenti e su una maggiore diversificazione geografica. Tra i mercati alternativi, il Mercosur offre prospettive interessanti. L’accordo commerciale con paesi come Argentina e Brasile potrebbe ridurre i dazi e aprire nuove opportunità di esportazione. Si tratta di mercati dove i prodotti italiani sono ben conosciuti e apprezzati, anche grazie alla presenza di una numerosa comunità di origine italiana. Un’altra opportunità potrebbe derivare dalla ricostruzione post-conflitto in Ucraina. Le aziende italiane, grazie alle loro competenze tecnologiche, sono in una posizione ideale per fornire soluzioni innovative in settori come l’idrogeno e il nucleare. Tuttavia, è fondamentale che l’Europa sostenga queste iniziative con politiche adeguate e incentivi mirati.

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D: Prima abbiamo citato i conflitti globali. Quanto stanno incidendo sull’accesso ai mercati esteri e sulla stabilità delle catene di fornitura?

R: L’impatto dei conflitti globali sull’accesso ai mercati esteri e sulla stabilità delle catene di fornitura è estremamente significativo e si riflette in vari ambiti strategici per la meccanica italiana. Il problema, peraltro, è che non riguardano solo Israele o l’Ucraina. Prendiamo l’Iran, ad esempio, un mercato che fino a pochi anni fa rappresentava un’importante opportunità per le nostre esportazioni. Le imprese erano in grado di vendere e installare macchinari con una certa continuità. Oggi, però, il contesto geopolitico rende tutto difficile: le sanzioni internazionali, le tensioni politiche e le difficoltà logistiche limitano drasticamente la possibilità di operare in Iran. Questo non è un caso isolato, ma un esempio di come i conflitti globali stiano restringendo l’accesso a mercati che un tempo erano ritenuti strategici. L’instabilità si ripercuote anche sulle catene di fornitura, aumentando sia i tempi di consegna sia i costi operativi. Ritardi e interruzioni sono diventati la norma per molte aziende. Questo fenomeno è aggravato dall’aumento dei costi di trasporto e dalla difficoltà di pianificare la produzione in un contesto volatile. A ciò si aggiunge la fragilità del quadro europeo.

D: Cosa c’entra la fragilità del contesto europeo?

R: La mancanza di una politica industriale comune tra i paesi membri rende ancora più complicato rispondere in modo coordinato alle sfide globali. Ad esempio, l’assenza di strategie condivise in tema di approvvigionamento di materie prime critiche o di sviluppo tecnologico limita la capacità dell’Europa di competere con altre grandi potenze economiche. Questo problema è ulteriormente amplificato dalla debolezza politica di Francia e Germania, che tradizionalmente hanno guidato le decisioni economiche dell’Unione. Per affrontare efficacemente questa situazione, è fondamentale che la Commissione Europea intervenga con urgenza, definendo linee guida comuni per supportare le imprese e rafforzare la resilienza delle catene di fornitura. È necessario sviluppare politiche che incentivino la diversificazione dei mercati di approvvigionamento e favoriscano l’autosufficienza tecnologica ed energetica.

D: Voi non rappresentate i componentisti auto; tuttavia, qual è, secondo Lei, il peso che il tracollo dell’automotive europeo sulla situazione della Meccanica italiana?

Quando l’automotive prospera, ne beneficia tutto l’indotto, a partire dalla siderurgia, che fornisce i materiali, fino ad arrivare ai comparti che producono macchinari e attrezzature legate a questa filiera.

R: Esattamente, l’associazione che rappresenta i componentisti è Anfia. Tuttavia, è indubbio che il settore automobilistico abbia sempre avuto un ruolo trainante sia in Italia che in Europa. Quando l’automotive prospera, ne beneficia tutto l’indotto, a partire dalla siderurgia, che fornisce i materiali, fino ad arrivare ai comparti che producono macchinari e attrezzature legate a questa filiera. Per quanto riguarda la nostra realtà specifica, molti dei nostri comparti sono comunque influenzati indirettamente dall’andamento dell’automotive. Ad esempio, ci sono aziende che si occupano di finitura e trattamento superfici, o che producono macchinari particolari o attrezzature per la logistica, come carrelli elevatori e magazzini automatici. Se le officine e le fabbriche legate all’automotive lavorano, c’è maggiore domanda per questi prodotti.

D: Quanto spazio c’è per l’innovazione tecnologica e la transizione verso una produzione sostenibile in un momento di crisi economica? Il settore ha i mezzi per investire in queste aree?

R: La risposta varia da azienda ad azienda. Alcune imprese hanno i mezzi per investire in innovazione tecnologica e sostenibilità, altre invece si trovano in difficoltà. È vero che sono state introdotte alcune semplificazioni per il piano Industria 5.0, (un’iniziativa governativa pensata per supportare la transizione tecnologica e sostenibile delle imprese italiane; ndr) che all’inizio era stato concepito in maniera complessa e di difficile applicazione. Questo ha richiesto un impegno significativo da parte di associazioni come Confindustria e Anima per rendere più accessibili e concreti gli strumenti messi a disposizione. Tuttavia, il tempo utile per sfruttare questi incentivi resta limitato: il piano dovrà essere concluso entro la fine del 2025. Tecnicamente, le recenti facilitazioni potrebbero favorire un’accelerazione degli investimenti: ma ora siamo di fronte a una realtà in cui molte aziende li stanno sempre più contenendo.

D: Per quale motivo le imprese, stanno frenando gli investimenti, se non per carenza di risorse economiche?

Il tempo utile per sfruttare gli incentivi di Transizione 5.0 resta limitato: il piano dovrà essere concluso entro la fine del 2025. Tecnicamente, le recenti facilitazioni potrebbero favorire un’accelerazione degli investimenti

R: Non si tratta solo di una questione di risorse economiche: il problema principale è la mancanza di visibilità sul futuro. Le imprese sono restie a impegnare capitali significativi se non hanno certezze sulle prospettive a medio e lungo termine. Ad oggi, molte aziende adottano un atteggiamento di attesa: preferiscono aspettare tempi migliori piuttosto che rischiare investimenti che potrebbero non portare i margini sperati. In questo senso, il citato piano Industria 5.0 non ha avuto l’impatto dirompente che ci si aspettava, soprattutto se confrontato con il precedente Industria 4.0. In particolare, nel primo anno di attuazione, i risultati sono stati deludenti: parliamo di circa 200 milioni di investimenti realizzati su una dotazione complessiva di 6 miliardi. Questo dimostra quanto sia urgente e necessario un cambio di passo.

D: Come sarà, secondo lei, il 2025?

R: È una domanda complessa, ma proverò a rispondere in base alle analisi in corso. Il 2025 non inizierà bene, ma potrebbe comunque essere meno negativo di quanto ci si aspetti. Tutto dipenderà da diversi fattori, tra cui le elezioni in Germania, che saranno determinanti per il futuro politico ed economico dell’Europa. L’esito di quelle elezioni influenzerà le politiche europee: se prevarrà un approccio più favorevole all’industria e allo sviluppo, questo potrebbe portare stabilità e nuove opportunità; al contrario, un indirizzo più rigido e orientato esclusivamente alla sostenibilità senza tenere conto delle esigenze delle imprese potrebbe rallentare ulteriormente la ripresa.

D: E cosa dovrebbero fare le istituzioni europee, in particolare la Commissione, per ribaltare le sorti della meccanica continentale e italiana?

R: L’Europa dovrebbe adottare un approccio più intelligente e meno ideologico alla transizione ecologica, evitando di demonizzare interi settori produttivi come “inquinanti” senza fornire alternative praticabili e tempi adeguati per consentire alle imprese di adattarsi. È fondamentale semplificare i processi burocratici e creare un ambiente favorevole alla crescita e all’innovazione, in cui le aziende possano operare senza essere ostacolate da vincoli inutili o regole che rischiano di diventare controproducenti. La sfida sta nel trovare un equilibrio tra la necessità di sostenibilità e quella di mantenere competitivi i settori produttivi: se raggiunto, potrebbe rendere il 2025 un anno meno difficile di quanto temuto. Tutto dipenderà dalla capacità dell’Europa di incentivare l’innovazione, garantendo che questa sia concretamente attuabile, e di definire politiche che coniughino pragmatismo e visione a lungo termine, offrendo opportunità di sviluppo a imprese e lavoratori in un contesto di transizione sostenibile.

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D: Cosa dovrebbero fare il governo italiano per favorire il mutamento in positivo dello scenario della meccanica?

R: Questa è una domanda complessa, ma credo che la priorità debba essere quella di mettere al centro le imprese e il settore manifatturiero. Non significa distribuire aiuti a pioggia, ma sviluppare una politica industriale strutturale e di lungo termine. Ad esempio, il citato piano Industria 5.0 non può essere concepito come una misura temporanea che crea una corsa affannosa per un anno o due. Gli incentivi devono diventare stabili e prevedibili, così che le aziende possano pianificare investimenti con maggiore serenità. Un punto interessante è la premialità sull’Ires per le aziende che reinvestono (la cosiddetta “mini-Ires”, di recente prevista dalla Legge di Bilancio; ndr). Questa agevolazione, con aliquota che passa dal 24% al 20%, è un primo passo, ma per essere davvero efficace dovrebbe essere resa strutturale e, se possibile, con percentuali più alte. Soprattutto, bisogna considerare che molte imprese potrebbero avere difficoltà a usufruirne, a causa dei tanti paletti burocratici e condizioni complesse, come la gestione della cassa integrazione o altre restrizioni. In questo senso, semplificare le procedure è fondamentale: le aziende italiane hanno bisogno di regole chiare e di meno cavilli per poter operare al meglio. Quando parlo di mettere le imprese al centro, mi riferisco proprio a questo: creare un contesto in cui siano supportate con strumenti semplici e accessibili.

D: Come vede la questione del contratto nazionale dei metalmeccanici (di cui si occupa, nella trattativa con i sindacati, Federmeccanica)?

R: Credo che alla fine un accordo si troverà. Tuttavia, il problema principale risiede nel costo del lavoro. Mi spiego: se il costo totale per un’azienda è, ad esempio, di 400 o 450 euro per dipendente, di questi solo 200 arrivano realmente nelle tasche del lavoratore. Una parte significativa di questi costi è legata ai contributi previdenziali e ad altri oneri che vanno allo Stato. È qui che, a mio avviso, lo Stato dovrebbe intervenire, condividendo una parte di questi costi per rendere gli accordi più sostenibili. Se fosse prevista una forma di decontribuzione o un alleggerimento del carico fiscale per le aziende, si potrebbero trovare soluzioni più facilmente, e con meno tensioni tra le parti. Questo approccio potrebbe anche aiutare a valorizzare il lavoro, riducendo il divario tra il costo sostenuto dalle imprese e il beneficio percepito dai lavoratori.

D: C’è una questione relativa all’occupazione giovanile?

R: Assolutamente sì, ed è uno dei nodi principali per il nostro settore. Durante il mio mandato, uno degli obiettivi è stato proprio quello di restituire dignità alla meccanica, un settore che offre opportunità concrete ma che fatica a trovare personale qualificato. Non parlo solo di laureati, ma soprattutto di operatori tecnici, figure fondamentali per le nostre imprese. La meccanica può garantire ai giovani un lavoro stabile, stipendi dignitosi e una carriera con prospettive di crescita, ma spesso fatichiamo a far percepire questo messaggio. Il problema si riflette anche sul tessuto produttivo. Le aziende, soprattutto quelle di piccole dimensioni, incontrano enormi difficoltà nel trovare personale preparato. Io stesso, con la mia impresa, posso testimoniare quanto sia complicato mantenere le macchine operative quando mancano operatori qualificati. A volte le attività si fermano, non per mancanza di lavoro o di volontà, ma perché non si trovano le persone giuste per svolgerle. Le figure di cui abbiamo più bisogno sono tornitori, fresatori, operatori di macchine utensili, tecnici di centri di lavoro, carpentieri e saldatori a disegno, oltre a tecnici qualificati provenienti da istituti tecnici industriali (Itis). Questi ruoli sono essenziali per la nostra industria, ma c’è un evidente disallineamento tra le competenze richieste dal mercato e quelle sviluppate nel percorso educativo. Ritengo che sia fondamentale rilanciare la formazione tecnica e renderla più attrattiva per i giovani. È necessario far capire che lavorare nella meccanica non solo offre prospettive professionali solide, ma rappresenta anche una parte cruciale del futuro produttivo del nostro Paese.



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