“La morte è un ponte che conduce altrove”

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Modena ,26 gennio 2025 – Viviamo nella società dell’efficientismo, delle conquiste tecnologiche, del mito di un’eterna giovinezza. E qualche volta – o forse spesso – ci dimentichiamo che la morte è lì, dietro l’angolo, per tutti. ‘A livella, diceva Totò. “Come l’erba sono i giorni dell’uomo”, è scritto nei Salmi, eppure facciamo finta che la fine dei nostri giorni non debba mai arrivare.

“Nella nostra cultura occidentale vige una sorta di censura della morte e del morire”, scrive l’arcivescovo Erio Castellucci che quest’anno ha voluto dedicare la “Lettera alla Città”, tradizionalmente diffusa alla vigilia della solennità di San Geminiano, proprio a questo tema apparentemente tabù, delicato, perfino scomodo. Per ricordarci che affrontare con serenità il pensiero della morte aiuta a vestire di senso anche la vita.

“Più forte della morte è l’amore” è il titolo del messaggio, ispirato al “Cantico dei Cantici” e alla lettera ai Corinzi di San Paolo. E non sembri strano che l’arcivescovo ci inviti a riflettere sulla morte in occasione della grande festa della città e della diocesi: il 31 gennaio fu proprio il giorno del trapasso del vescovo Geminiano, nell’anno 397, al rientro da Costantinopoli dove aveva guarito la figlia dell’imperatore. Geminiano, allora 84enne, “pagò il debito con la morte”, come è scolpito sulla Porta dei Principi del Duomo. “Ho voluto affrontare questo tema perché sono rimasto colpito da alcuni eventi avvenuti nel nostro territorio, fra cui vari suicidi anche di giovani, e anche dopo gli incontri con gruppi di persone che hanno subito lutti – spiega don Erio –. Mi sono reso conto che la morte è stata come ‘privatizzata’, come se non avesse una rilevanza sociale, anche se il Covid ce l’ha messa davanti agli occhi”.

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Oggi c’è “la volontà di lasciare la morte fuori dalla porta di casa”, se ne parla con imbarazzo, si utilizzano eufemismi (una persona “si spegne”, “ci lascia”, “viene a mancare”) oppure la si evoca e la si esibisce come spettacolo, “guerre in tv o catastrofi su Youtube”, per nutrire l’illusione di esserne estranei. Eppure – scriveva già Epicuro – la morte è comunque compagna di viaggio e Heidegger aggiungeva che l’uomo è un “essere-per-la-morte”. San Francesco la chiamava sorella, e Papa Francesco ha invitato a fare un giro nei cimiteri per leggere i nomi di tante persone “alcune delle quali forse pensavano di essere immortali, immuni e indispensabili”. “Quell’esaltazione dell’io per cui gli esseri umani spesso si infiammano e arrivano perfino a odiarsi e uccidersi – scrive l’arcivescovo – appare tragicamente ridicola di fronte alla morte”.

E allora, se la morte è un passaggio ineludibile, come affrontarlo? La fede cristiana pone l’accento sulla vita futura: la morte “è un ponte, alto e vertiginoso, che conduce a un’altra sponda dove troverà pienezza ciò che è stato costruito giorno per giorno nella vita terrena”, aggiunge don Erio. Ma anche chi non crede nell’eternità “può affrontare la morte senza cadere nella disperazione”: l’arcivescovo cita l’ex presidente francese François Mitterrand, agnostico, che suggeriva di guardare in faccia la morte, per vivere pienamente “il mistero di vivere e di morire”.

Un ampio passaggio della lettera è dedicato alle cure palliative e all’importanza degli Hospice che creano “una cultura più aperta e positiva nei confronti della morte” e riempiono il tempo “di relazioni buone e risanate”. “Queste esperienze – scrive don Erio – devono essere potenziate: oggi il sostegno economico è insufficiente ed è ripartito in modo diseguale sul territorio italiano”. Serve sempre una mano amica: “La differenza, in una parola, è l’amore. Quando gli ultimi tratti del percorso della vita sono intrisi di amore dato e ricevuto, si riempiono di senso”.

Viene spontaneo – a margine della Lettera – chiedere al vescovo una riflessione sul tema del ‘fine vita’, tanto dibattuto. “Da sempre la Chiesa ha preso le distanze sia dall’eutanasia e dal suicidio assistito, sia dall’accadimento terapeutico – ci ricorda don Erio –. In mezzo stanno le cure palliative che sono importanti. E per cure palliative non intendo solo la riduzione del dolore, ma anche l’attenzione e la promozione delle relazioni, la necessità che il tempo che resta non sia un tempo vuoto ma si riempia di affetti”. Nei passaggi finali della Lettera, l’arcivescovo rammenta dunque tutte le “esperienze di prossimità” che esistono – pur nel silenzio e nella discrezione – anche nelle nostre comunità, “la cura degli ammalati, delle persone sole e dei familiari di chi subisce lutti”. E riemerge la parola chiave del Giubileo, “Speranza”: “Divulgare e accompagnare le esperienze di accompagnamento del morire e della morte – conclude – è un contributo alla speranza”.



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