I ghetti tra propaganda e quotidianità. Le foto della Shoah che ci inquietano

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«Quello non è il ghetto che io mi ricordo. Lo percepisco come qualcosa di irreale, di completamente falso. (…). Dov’è la realtà? Negli archivi? Nei vecchi documenti? Nel cimitero?». 

Sono le parole smarrite dell’anziano Arnold Mostowicz, medico ebreo polacco, quando gli vengono mostrate per la prima volta, nel 1998, le immagini a colori realizzate nel ghetto di Łódź, da Walter Genewein, il responsabile tedesco della contabilità del ghetto. Sono scene di lavoro e vita quotidiana degli ebrei rinchiusi dalle quali non traspare (quasi) alcun tratto di violenza e il ghetto non ha nulla di terrificante. Le persone ritratte hanno un aspetto piuttosto curato, sono assorte nelle loro occupazioni, posano docilmente davanti all’obiettivo, senza sorridere.

La messinscena

Fotografo dilettante e ossessionato dalla perfezione estetica, Genewein realizzò tra il 1940 e il 1944 centinaia di diapositive a colori, con l’accordo del suo superiore Hans Biebòw. Le autorità civili naziste che amministravano il ghetto cercarono con ogni mezzo di metterne in luce l’alta produttività e potenziale economico per convincere Himmler a tenere in vita il più a lungo possibile i lavoratori forzati ebrei.

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È evidente che dal punto di vista di Mostowicz, rinchiuso a Łódź per quattro lunghi anni, nulla della visione costruita da Genewein poteva richiamare, nemmeno per vaghi accenni, l’esperienza traumatica vissuta, segnata dalle disumane condizioni di prigionia imposte dai nazisti: la fame, lo sfinimento fisico e psichico, la sporcizia, la paura, la disperazione.

Le scene di verità catturate dal contabile ghetto senza alcuna empatia, ma nel tentativo di produrre un effetto di mimesi della realtà, sono il frutto di un’accurata messinscena in cui ogni soggetto appare come congelato nella posa e privo di espressività. Proprio perché restituiscono una visione del ghetto parziale e del tutto inusuale, si tratta di immagini fortemente disturbanti. Molto diverse dalle foto di propaganda nazista, non vanno però viste come foto innocenti, considerando l’appartenenza del fotografo al gruppo dei persecutori nazisti, responsabili della sofferenza inflitta agli ebrei.

Il valore documentale

Per il sopravvissuto, la dissociazione tra le due visioni, quella che affonda nei suoi ricordi traumatici in bianco e nero, e quella fintamente realista, estetizzante, potremmo dire addomesticata, dei quadri colorati di Genewein, provoca un corto circuito estremamente doloroso – «(…) Non riesco nemmeno a collocare me stesso in quella realtà …» –  per l’incapacità di accogliere quelle immagini come veritiere. Non si tratta solo di rigettarle come false, ma di considerarle anche la negazione del crimine e un oltraggio alla memoria delle vittime.

Quando una fotografia offre una narrazione divergente da quella alla quale siamo abituati e sulla quale abbiamo costruito la nostra conoscenza della Shoah, la tentazione è di respingerla, perché è un tassello problematico che non sappiamo collocare nella trama generale del quadro. Le immagini patinate di Genewein manipolano la realtà del ghetto, ma hanno un valore documentale prezioso.

Anche ribaltando la prospettiva e posizionandoci dalla parte degli ebrei rinchiusi, ci si imbatte in fotografie problematiche, difficili da comprendere senza un’accurata ricostruzione del contesto in cui furono scattate. Henryk Ross, fotografo professionista internato nel ghetto, era incaricato dal Consiglio ebraico del ghetto di produrre le foto ritratto per i permessi di lavoro, di documentare alcune attività interne e realizzare bei ritratti del temuto presidente Chaim Rumkowski e dell’élite del ghetto.

Come il collega Mendel Grossman col quale condivideva gli stessi compiti, Ross poteva girare liberamente nel ghetto con la sua macchina fotografica. Entrambi trasgredirono ripetutamente gli ordini, con enorme coraggio e a grave rischio della propria vita e di quella dei loro famigliari, per documentare clandestinamente le terribili condizioni di sofferenza, l’agonia dei bambini, le deportazioni. Un atto eroico, di ostinata e disperata resistenza, che ha anche il significato di voler contribuire a scrivere la propria storia, senza lasciare al persecutore l’unica narrazione dei fatti.

Jakow Freitag fotografato nel ghetto di Łódź dallo zio Mendel Grossman, nel 1940-43 (probabilmente 1943). Galilea, Ghetto Fighters’ House Museum. (Foto courtesy del Museo).

Henryk Ross realizzò centinaia di ritratti di coppie innamorate, di genitori abbracciati ai loro piccoli, di bambini che giocano, di fidanzamenti, matrimoni e momenti di festa. Sono scene di vita felice e spensierata che stridono con le foto della Shoah nei ghetti che ben conosciamo, tanto che se non fosse per la stella gialla che indossano gli ebrei fotografati, sarebbe difficile determinare che ci si trovi all’interno di un ghetto nazista.

Realizzati su richiesta degli interessati e a pagamento, sono scatti che immortalano l’insopprimibile voglia di vivere e di speranza anche in condizioni estreme. I volti sorridenti appartengono a una piccola élite del ghetto composta dai membri del consiglio ebraico e della polizia ebraica del ghetto.

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Considerati collaboratori indispensabili per far eseguire gli ordini di Rumkowski e quelli dei tedeschi, godevano di diversi privilegi (abitazioni e razioni di cibo migliori), dei quali il principale riguardava la possibilità di non inserire i nomi dei propri famigliari sulle liste di deportazione. Alle SS bastava raggiungere il numero imposto di ebrei da deportare, ma la scelta dei condannati a morte, ovvero del “lavoro sporco”, era delegata a questa élite.

La foto dei due bambini dall’aspetto curato e pasciuto che giocano a “caccia all’ebreo” è illuminante su questo aspetto. Ross l’ha datata tra il 1942 e il 1944, indicando che la scattò dopo la deportazione al centro di sterminio di Chelmno di tutti i bambini sotto i 10 anni, troppo deboli per il duro lavoro forzato in fabbrica.

Dopo questa Aktion degli inizi di settembre 1942, rimasero nel ghetto solo i figli dell’élite ebraica, e alcune eccezioni, come il piccolo Jakow Freitag, cinque anni, nipote di Mendel Grossman che l’ha ritratto nel 1943 mentre è stremato dalla fame (morirà poche settimane dopo). Un gesto amorevole per ricordare il bimbo fino alla fine, ma anche un atto di denuncia dell’agonia dei bambini del ghetto.

Prospettive da tenere insieme

Come si conciliano queste immagini che sembrano restituirci due contesti completamente diversi? L’accostamento tra la normalità e la spensieratezza di alcuni all’agonia di tutti gli altri produce un effetto di fastidioso imbarazzo, come se le prime annullassero di fatto la drammaticità delle seconde e risultassero meno vere. Del resto lo stesso Ross, sopravvissuto alla Shoah insieme a parte dei suoi negativi, sotterrati nel ghetto prima della liquidazione finale, non pubblicherà mai in vita questo tipo di ritratti che ancora oggi faticano a trovare spazio persino nelle mostre dei musei e nei testi di storia sui ghetti.

Sono immagini problematiche da trattare anche perché sollevano la questione della zona grigia e della complessità di un contesto che razionalmente oggi non è del tutto comprensibile per chi non l’ha vissuto.

D’altronde, si può essere giudicati per aver voluto una foto ricordo in mezzo alla più totale desolazione e per godere di condizioni materiali d’eccezione? Anche quando questo non è immediatamente visibile in una foto non va dimenticato il contesto: la situazione di coercizione e violenza estrema dell’internamento del ghetto che pesa su tutti, anche sui pochi privilegiati, la cui la normalità ritratta da Ross si rivelerà, a posteriori, solo una sospensione della condanna a morte. Anche se in molti casi la sopravvivenza nel ghetto fu possibile godendo di forme di protezione e privilegio, si trattò sempre di una condizione temporanea, che non fu mai una garanzia di salvezza. Lo dimostrano i dati dei sopravvissuti dopo la liquidazione del ghetto nell’estate 1944: meno di 900 ebrei.

Le fotografie della Shoah sono un repertorio smisurato e fortemente disomogeneo, il cui studio richiede pazienza e rigore. L’errore è ostinarsi a credere che ogni frammento di verità debba comporsi armonicamente, incastrando perfettamente tutte le tessere del puzzle. Per nessun evento storico esiste una sola lettura, è banale ricordarlo.

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La sfida è di adottare un approccio integrato che tenga insieme le prospettive più diverse, affinando la capacità di osservare e di metterne continuamente alla prova i limiti.


Laura Fontana, storica della Shoah, è autrice del libro Fotografare la Shoah. Comprendere le immagini della distruzione degli ebrei (Einaudi).

© Riproduzione riservata



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