Visite private, a pagamento, durante l’orario di lavoro e carte di credito usate in modo “allegro”: si allargano a questi fronti le indagini della procura sulla Città della Salute di Torino, la principale azienda ospedaliera del Piemonte. Risultato, i pubblici ministeri Giulia Rizzo e Mario Bendoni hanno aperto altre due inchieste come “stralci” di quella principale sui conti, che lo scorso ottobre era sfociata in un avviso di conclusione delle indagini preliminari notificato a 25 persone. Un’inchiesta che ha fatto emergere un buco da 122 milioni di crediti non più esigibili e che vede imputati, tra gli altri, l’ultimo direttore generale dell’azienda ospedaliera, Giovanni La Valle (che nel frattempo ha lasciato l’incarico ed è assistito dall’avvocato Natascia Taormina).
Il buco milionario
In quel primo fascicolo, gli inquirenti accusano dirigenti ed ex che si sono succeduti tra il 2013 e il 2022 alla guida del polo ospedaliero torinese, oltre a direttori sanitari e amministrativi e altre figure manageriali e anche componenti del collegio sindacale: a vario titolo avrebbero falsificato i conti degli ultimi dieci anni per alleggerire il passivo, in particolare per quanto riguarda le voci della libera professione. Stando a quanto emerge dalle 40 pagine dell’avviso di chiusura indagini, nessuno aveva chiesto ai medici che eseguivano prestazioni sanitarie intramoenia di versare la quota del 5% prevista dalla legge Balduzzi per chi esercita privatamente all’interno delle strutture sanitarie pubbliche, portando così con il tempo ad allargare il buco di diversi milioni di euro. Per i pm Rizzo e Bendoni, avrebbero «disatteso i principi di diligenza professionale e correttezza che reggono l’assolvimento delle funzioni di vigilanza e controllo».
Visite private
Adesso emergono i due nuovi fascicoli, di cui si stanno occupando i carabinieri dei Nas su coordinamento degli stessi pubblici ministeri, che hanno già chiesto una proroga di indagine di sei mesi sul filone iniziale. Anche alla luce della complessità di una colossale mole di atti e degli interrogatori resi nelle scorse settimane da quasi tutti i 25 indagati.
Il primo dei nuovi fronti si concentra sull’ipotesi che diversi medici abbiano svolto visite private in orario d’ufficio, le cosiddette “attività intramoenia”: in pratica, i dottori avrebbero visto pazienti a pagamento senza timbrare il cartellino all’uscita, quindi ufficialmente ancora in servizio per conto del sistema sanitario nazionale e occuparsi di prestazioni pubbliche. Si tratterebbe soprattutto di intramoenia “allargata”, con visite eseguite all’esterno del loro ospedale di riferimento. E, in certi casi, addirittura in studi presenti in altre città (come dimostrano altre inchieste dei Nas).
Taxi e alberghi
L’altra indagine, aperta per peculato, riguarda l’utilizzo improprio di carte di credito: una parte degli accertamenti è concentrata sul ruolo di Franca Fagioli, direttrice di oncoematologia all’ospedale infantile Regina Margherita (di recente entrato in una nuova azienda sanitaria autonoma). Lei e il suo avvocato, Giovanni Lageard, assicurano di non aver ricevuto atti ufficiali e di aver saputo di questo nuovo filone solo dai giornali: «Non so proprio di cosa si stia parlando, io ho sempre usato la carta secondo il regolamento aziendale, per pagare viaggi a convegni, pernottamenti miei o di altri medici della mia equipe. E ho sempre chiesto l’autorizzazione alla direzione sanitaria di presidio, anche quando si trattava del conto di un taxi».
Ora la dottoressa ha smesso di usare quella carta perché è cambiato il regolamento all’interno della Città della Salute. Ma, al di là di questo particolare, Fagioli si dice serena e pronta a farsi interrogare dai pubblici ministeri. Anche sull’origine dei soldi: «Sono fondi donati apposta per la formazione e li usiamo per questo. Per esempio, abbiamo attinto a quel denaro quando abbiamo mandato una dottoressa a Houston, un’altra a Parigi: non possiamo certo pretendere che paghino di tasca loro, anche per tenersi slegati dalle compagnie farmaceutiche».
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