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Otto anni fa, al tempo della sua prima inaugurazione come Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump era un outsider della politica e nessuno sapeva bene cosa aspettarsi da questo imprenditore arrivato un po’ per caso alla Casa Bianca. La settimana scorsa, in occasione del giuramento che ha segnato l’inizio del suo secondo mandato presidenziale, The Donald è sembrato invece in pieno controllo della situazione: ha confermato molte delle promesse fatte in campagna elettorale (comprese le più strampalate, come rinominare il Golfo del Messico “Golfo d’America”), usato toni non certo concilianti verso avversari politici interni ed esterni e tracciato la rotta per una presidenza che il settimanale britannico The Economist ha già etichettato come “imperialista”.

Nel giorno dell’insediamento, Trump ha poi firmato 26 ordini esecutivi –atti che permettono al Presidente di indirizzare l’applicazione delle leggi- più di quanti ne avesse firmati Obama nei primi 100 giorni della sua presidenza. Si tratta di atti eminentemente politici, che servono a segnalare la direzione che il Trump vuole dare al proprio mandato. Una delle prime mosse è stata quella di concedere la grazia a più di 1.500 persone che erano state incriminate in seguito all’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2020 (“ostaggi” li ha chiamati, facendo un parallelo esplicito con coloro che sono nelle mani di Hamas in seguito all’attacco del 7 ottobre 2023, e rivendicando il proprio ruolo nei negoziati per il recente cessate il fuoco tra Israele e Hamas). Ha poi ritirato l’adesione degli Usa agli accordi di Parigi, cosa che aveva già fatto durante il suo primo mandato, e abolito una serie di politiche volute dall’amministrazione Biden per combattere il cambiamento climatico, cui erano legati anche sostanziosi finanziamenti pubblici. La promessa di ingaggiare una lotta senza quartiere all’immigrazione clandestina è iniziata con le prime espulsioni e, su un piano più simbolico, con l’ordine di abolire l’attribuzione automatica della cittadinanza a chiunque nasca sul suolo americano (il cosiddetto ius soli, che per ragioni storiche caratterizza gli Stati Uniti come quasi tutti i paesi del continente americano). Due altri punti hanno colpito i commentatori e l’opinione pubblica. Il primo è l’annuncio del ritiro degli Usa dall’Oms (Organizzazione Mondiale per la Sanità). Il secondo è in realtà qualcosa che non è stato fatto, ovverosia la mancata applicazione di dazi doganali sulle importazioni, uno dei mantra del neo-presidente durante tutta la campagna elettorale.

Quali sono le implicazioni di questa linea d’azione per gli Stati Uniti e per il resto del mondo?

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Non è affatto scontato che le azioni promesse e intraprese da Trump portino un beneficio agli Stati Uniti. La deportazione di massa degli immigrati irregolari, alcuni dei quali vivono e lavorano negli Usa da decenni rischia di mettere in difficoltà i settori economici in cui il loro impiego è molto diffuso, come l’agricoltura, i servizi alla persona e la ristorazione, esacerbando le difficoltà a reperire manodopera e, potenzialmente, spingendo verso l’alto i salari e l’inflazione. Lo stop allo ius soli invece è già stato bloccato da un giudice e la questione è destinata ad arrivare fino alla Corte Suprema, per un vizio di costituzionalità che appare abbastanza palese.

Analoghe considerazioni si possono fare in relazione ai dazi sulle importazioni, che Trump ha per il momento posticipato (pare all’1 febbraio). Secondo la grande maggioranza degli economisti i dazi avranno un effetto inflativo importante nel medio termine, riporteranno in America un numero limitato di posti di lavoro, e certamente non contribuiranno a chiudere il deficit commerciale che tanto ossessiona il 47° Presidente Usa. In aggiunta, gli altri paesi (Canada e Messico in testa) hanno già annunciato che risponderanno colpo su colpo a eventuali dazi doganali, rendendo ancora più incerto il beneficio di una politica commerciale protezionistica.

Quel che è chiaro, finora, è che secondo la dottrina Trump, la stabilità internazionale e la pace si possono raggiungere solo attraverso la forza e questo atteggiamento muscolare sembra essere il principale filo conduttore di quello che ci aspetta. Siamo di fronte a un cambio di paradigma secondo il quale le relazioni internazionali sono un gioco a somma zero, dove necessariamente qualcuno vince e qualcuno perde, e Trump ha dimostrato di non digerire facilmente le sconfitte.

I più ottimisti ritengono che questa postura aggressiva serva solo a sparigliare le carte e ottenere concessioni da parte degli altri paesi, ma che alla fine si possa trovare un equilibrio e un accordo. Secondo questo punto di vista, anche l’abbandono dell’Oms non è altro che un modo per forzare la mano sulle riforme che l’amministrazione americana non è riuscita ad ottenere con le buone.

È una scommessa molto rischiosa. In primis perché abbandonare il tavolo delle discussioni e i consessi internazionali lascia maggiore spazio e maggiore margine di manovra ai rivali degli Stati Uniti, come la Cina, che possono porsi come difensori della collaborazione globale o semplicemente aumentare l’influenza che già esercitano all’interno delle istituzioni. In secondo luogo, perché un mondo più frammentato e meno incline alla collaborazione è un mondo più debole e meno capace di affrontare le grandi sfide comuni che l’umanità ha di fronte a sé: guerre, epidemie, disuguaglianze, cambiamenti climatici, …

Allacciamo le cinture!



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