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Imprese e istruzione, un rapporto da costruire. Il ruolo della concorrenza e della proprietà intellettuale  

Per introdurre il contributo che, da studioso del diritto della concorrenza e della proprietà intellettuale, posso dare al tema oggetto di questa sessione, vorrei partire da un’esperienza virtuosa di istruzione effettuata non nel mondo della scuola e dell’università, ma direttamente in quello del mercato del lavoro.

Mi riferisco alle attività di formazione che le agenzie private dell’impiego svolgono nell’ambito di quelle politiche attive del lavoro che, nonostante il Jobs Act, il sistema pubblico iperburocratizzato non è stato invece in grado di realizzare: politiche attive che consistono non solo nell’intermediare la domanda e l’offerta di lavoro, ma anche nel riconvertire e quindi formare i lavoratori ai nuovi compiti per i quali esiste domanda. Ed infatti Oscar Giannino, già nel 2014, proprio commentando il Jobs Act prevedeva (ed è stato facile profeta) che anche l’Agenzia nazionale per l’occupazione sarebbe stato un fallimento conclamato, se non si fosse dedicata a gestire l’accreditamento di agenzie private in concorrenza tra loro e se la legge non fosse stata accompagnata (cito da una sua intervista) “da una riforma della scuola, secondaria e terziaria … con un sistema scolastico più professionalizzante.

E badate bene che, da allora, disponiamo di un importante strumento in più: la grande disponibilità di dati e gli algoritmi di intelligenza artificiale possono infatti aiutare molto più che in passato a comprendere i trend della domanda di lavoro e quindi a preparare oggi i giovani ad affrontare i compiti che domani il mercato del lavoro richiederà. Tutto ciò chiaramente richiede proprio una collaborazione attiva e innovativa tra imprese, sistema scolastico e agenzie private dell’impiego, non necessariamente in un sistema unitario, ma anzi (e preferibilmente) con soggetti che operano in concorrenza tra loro, sottoponendo alla prova dei fatti le rispettive professionalità.

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Certo, per fare questo occorre anzitutto il coraggio di abbandonare l’atteggiamento schizofrenico che domina nel nostro Paese, per cui da un lato algoritmi di intelligenza artificiale generativa, come il popolarissimo Chat GPT sono ormai di uso comune (anche troppo: lo vediamo correggendo le tesi di laurea…); e dall’altro però si lanciano appelli a regolamentazioni stringenti che rischiano di ostacolarne l’impiego proprio là dove sono maggiormente necessarie e cioè per accelerare i processi innovativi e accrescere la competitività delle imprese, diventando fattori di sviluppo economico. Di questa schizofrenia è eloquente esempio il d.d.l. del Governo in materia di intelligenza artificiale, che, ignorando completamente il Regolamento comunitario sulla stessa materia, introduce vincoli indefiniti e di carattere generale, che si applicano indiscriminatamente a tutti i sistemi e ai modelli di intelligenza artificiale (mentre la disciplina UE prevede obblighi specifici e soprattutto li riserva ai sistemi ad alto rischio e ai modelli di uso  generali), introducendo una normativa totalmente discrezionale, che, nelle mani dei nostri Giudici, rischia di ripetere la vicenda degli OGM, con laboratori chiusi e campi sequestrati (ne sanno qualcosa il mio omonimo Professor Cesare Galli dell’Università di Bologna e l’agricoltore Giorgio Fidenato) e dunque costituendo un freno verso lo sviluppo delle ricerche e delle applicazioni dell’intelligenza artificiale del nostro Paese, anche nel settore decisivo di cui qui stiamo parlando.

La seconda riflessione riguarda necessariamente la concorrenza tra sistemi scolastici, già oggi in parte presente, se si pensa alla possibilità che i nostri giovani hanno di seguire ad esempio il programma dell’International Baccalaureate, totalmente diverso dai nostri licei, ma che dà parimenti accesso all’Università. Concorrenza – attenzione – non significa, come gli zelatori della scuola centralista interessatamente paventano, creare scuole di serie A e di serie B (che, parliamoci chiaro, ci sono già e purtroppo le seconde sono molto più delle prime): significa invece avere scuole diverse per esigenze diverse, scuole e università che lavorano per l’eccellenza ed altre che fungono da ascensore sociale, un ruolo importantissimo che invece sembra praticamente perduto. Nell’uno e nell’altro caso occorre introdurre nella scuola una mentalità imprenditoriale, diretta a intercettare queste diverse domande della società civile e a specializzarsi.

La terza riflessione riguarda ovviamente il valore della cultura: una scuola aperta al mercato non solo non è la negazione del valore della cultura, e non solo di quella scientifica, di cui abbiamo ancora un grande deficit, ma anche della cultura umanistica, che rimane fondamentale e che, di nuovo, è proprio la scuola appiattita di oggi a mortificare. Il grande Derek F. Abell, già Direttore European School of Management and Technology di Berlino, spiega che i manager di successo del futuro dovranno avere (ovviamente) una grande competenza nel loro settore, una conoscenza di massima ma ad ampio raggio dell’evoluzione scientifica e tecnologica in atto, ma anche una forte cultura umanistica. Proprio una scuola aperta al mondo delle imprese può anzitutto dare la possibilità di trovare nuove fonti di finanziamento per la cultura: la legge sul Made in Italy, in mezzo ai finanziamenti a pioggia e alla demagogia del ridicolo liceo del Made in Italy, ha previsto espressamente la possibilità per gli istituti ed i luoghi della cultura di registrare propri marchi, non tanto e non solo per fare merchandising, come con le felpe con i nomi delle nostre università, quanto per dar vita a operazioni di co-branding con le imprese del territorio per usarli sui mercati internazionali, dove spesso la cultura italiana è un plus anche per vendere scarpe e impianti industriali, e quindi aiutando le imprese italiane a competere meglio a livello globale, generando risorse per la cultura (perché le licenze si pagano), attirando anche nei centri minori turismo consapevole (più che mai importante a fronte dei cambiamenti climatici, che rischiano di mettere fuori mercato un turismo basato solo su sole e mare) e così anche restituendo alla cultura una centralità che oggi ha perduto   

E la quarta riflessione, su cui chiudo, riguarda l’innovazione: anche qui, una recente legge ha restituito alle Università e alle altre istituzioni pubbliche di ricerca (inclusi gli istituti tecnici, badate) i diritti sulle invenzioni frutto delle proprie ricerche, tra l’altro consentendo loro di competere anche nell’attirare ricercatori e studenti migliori, ai quali ogni Università è libera di determinare le premialità da attribuire, e soprattutto di consorziarsi o di rivolgersi a intermediari privati perché i loro brevetti arrivino al mercato e non restino solo titoli per i concorsi.

Anche qui, insomma, abbiamo bisogno di far lavorare la scuola insieme al mondo delle imprese, di fare squadra come si dice pomposamente, di non fare come i polli di Renzo, come preferisco dire io, riprendendo il Manzoni. Ma soprattutto abbiamo bisogno di farlo in modo concreto, non limitandoci a cambiare i nomi ai ministeri: con più libertà e più responsabilità, che non vanno mai disgiunte.



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