Mediobanca, cda contrario a Mps, ma in Borsa il titolo va giù del 4%

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Nel giorno in cui il cda di Mediobanca ha rigettato l’ops di Mps «non concordata e fortemente distruttiva di valore», la Borsa ha bocciato il titolo della banca milanese, che ha chiuso in calo del 4,36% a 15,78 euro, dimostrando di non condividere le motivazioni dell’arrocco. La posizione è stata approvata a maggioranza, essendosi astenuti Sandro Panizza e Sabrina Pucci, ma gli argomenti a suo sostegno sono stati ritenuti, evidentemente, inconsistenti. A partire dalla constatazione che l’ops «non abbia valenza industriale». L’operazione ha un razionale preciso perché mette a fattor comune le fabbriche prodotti di Mediobanca (private & investment banking, wealth management e credito al consumo) con la piattaforma retail delle 1.300 filiali di Mps. La business combination consentirebbe alla banca milanese di recuperare la propria identità, quella di istituto di medio credito a sostegno del sistema. Come noto, a seguito della legge bancaria del 1936, che divise il credito a breve da quello a medio e lungo termine, Mediobanca optò per questo secondo modello, approvvigionandosi della liquidità grazie alla raccolta delle tre ex bin azioniste (Comit, Credit, Banca Roma) che consentiva di finanziare il mondo industriale. Con la privatizzazione dell’istituto (1956), venne tagliato il cordone con le ex bin, e non sono state più trovate soluzioni sostitutive per la raccolta.

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IL PECCATO D’ORIGINE

Se andasse in porto l’ops del Monte, Mediobanca tornerebbe a contare su una provvista consistente attraverso gli sportelli dell’istituto senese. La complementarietà delle due strutture fa sì che l’Antitrust, al contrario di quanto avvenuto di recente in altre operazioni similari (vedi Intesa-Ubi con oltre 600 filiali dismesse), non dovrebbe ordinare tagli di agenzie, né ci sarebbero ricadute sull’occupazione. Questo spiega la reazione positiva di Lando Sileoni, leader della Fabi, il sindacato dei bancari: «È la prima volta che un’operazione simile non produce esuberi, né tra i dipendenti di Mps né tra quelli di Mediobanca». Fonti finanziarie ribattono alle critiche di Piazzetta Cuccia. «La natura industriale della business combination proposta è talmente ovvia che la stessa Mediobanca ha deciso di includere da tempo nel proprio perimetro il credito al consumo, e non si tratta certamente di un’attività legata all’investment banking» ma «molto più nelle corde di una banca commerciale». Non sarà quindi l’ops «a pregiudicare l’identità», a cui le attività di investment banking e wealth management contribuiscono «all’utile netto solo per il 35%, pressoché quanto Compass (30%). La parte del leone la fanno gli utili di Generali, che contribuiscono a circa il 40% del risultato netto di Mediobanca, sul quale impattano negativamente i costi delle funzioni centrali».

LE INCONGRUENZE

Il documento rilasciato dopo il cda di Mediobanca fa riferimento a una presunta «copiosa perdita di clienti», senza specificare sulla base di quali elementi obiettivi avverrebbe. La stessa natura apodittica delle affermazioni riguarda il passaggio sulla «perdita delle migliori risorse umane» del gruppo. Anche le preoccupazioni sull’indipendenza di Piazzetta Cuccia non hanno convinto i mercati e parte degli analisti, tenuto conto che i soci storici rimarranno a presidio della stabilità. Dal punto di vista della reputazione, messa in discussione nella nota del board, la bollinatura della Dg Comp è la conferma inequivocabile che Mps sia un istituto in salute. D’altra parte il suo valore è fissato ogni giorno dalla Borsa, circostanza che rende opinabile, se non incomprensibile, l’asserita «difficoltà a determinare il valore intrinseco dell’azione della Banca Mps».

Il terzo polo bancario, secondo la nota di Mediobanca, non prevede sinergie di costi, che tuttavia non sono l’obiettivo dell’offerta. In ogni caso ciò che emerge con evidenza sono le divergenze degli emolumenti del top management, dove emerge una forte differenza tra Siena e Milano. Dagli ultimi bilanci si evidenzia che il presidente Mps Nicola Maione prende 110 mila euro, Luigi Lovaglio 947 mila euro annui, a causa del salary cap (tetto sugli stipendi risalenti alle prescrizioni dell’Europa), mentre al 30 giugno 2024, il presidente di piazzetta Cuccia Renato Pagliaro guadagnava 928.799 euro, il dg Francesco Saverio Vinci 3,7 milioni, l’ad Alberto Nagel 4,5 milioni, in calo rispetto ai 5,8 milioni dell’anno prima in quanto la parte variabile legata ai risultati è scesa. Proseguono intanto le manovre tra gli azionisti: ieri la famiglia Doris ha apportato un altro 0,23% pari a ulteriori 1,88 milioni di azioni all’accordo di consultazione, la sua partecipazione è quindi salita a 8 milioni di azioni (0,96% del capitale sociale). L’accordo parasociale, che non vincola al voto i suoi aderenti, sale all’11,62%.

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