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Il procuratore di Roma Francesco Lo Voi era obbligato a inviare al Tribunale dei Ministri l’esposto dell’avvocato Luigi Li Gotti contro la presidente del Consiglio Giorgia Meloni e i suoi ministri? O aveva libertà d’azione e, dunque, anche quella di cestinare l’esposto, se ritenuto infondato, lasciando la questione al solo piano politico? «Il procuratore non poteva fare nulla se non quello che ha fatto, in conformità all’articolo 6 della Legge Costituzionale del 16/1/1989», spiega al Dubbio Gaetano Azzariti, professore ordinario di Diritto costituzionale presso la Facoltà di Giurisprudenza de “La Sapienza”.

Meloni, il sottosegretario Alfredo Mantovano, il ministro della Giustizia Carlo Nordio e il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi sono attualmente indagati per favoreggiamento e peculato per il contorto rimpatrio del comandante libico Osama Najim Almasri, accusato dalla Corte penale internazionale di crimini di guerra e crimini contro l’umanità e riportato a casa con un volo di Stato. La premier, in un video pubblicato sui social, ha anticipato le possibili fughe di notizie, annunciando personalmente di essere indagata. E parlando, impropriamente, di avviso di garanzia. Cosa che Lo Voi, stando alla legge, non avrebbe potuto notificare.

Ed infatti non lo ha fatto: quella consegnata a Meloni e ai suoi a Palazzo Chigi è infatti una comunicazione, sulla base dell’articolo 96 della Costituzione, in base al quale il procuratore della Repubblica, omessa ogni indagine, entro 15 giorni trasmette tutti gli atti al Tribunale dei Ministri e ne dà immediata comunicazione ai soggetti interessati affinché possano presentare memoria al Parlamento, che deciderà, poi, se incriminarli o meno.

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«Dopo la denuncia di Li Gotti, la procura non si è mossa, non ha indagato – spiega Azzariti -, facendo ciò che era previsto, ovvero comunicare ai soggetti interessati la notizia della denuncia». L’unica verifica consentita a Lo Voi era quella relativa all’esistenza di un fatto configurabile, astrattamente, come reato. Il fatto – il silenzio di fronte alla richiesta della Cpi, la scarcerazione e il volo di Stato per il rimpatrio di Almasri – c’è. E i reati di favoreggiamento e peculato sono, dunque, astrattamente configurabili. Fatta quest’unica verifica, dunque, il procuratore ha spedito il tutto al Tribunale competente.

Lo Voi avrebbe potuto applicare al caso la famosa circolare di Giuseppe Pignatone, con la quale, nel 2017, impose una certa cautela al suo ufficio, per evitare iscrizioni frettolose, in chiave garantista? Secondo quel documento, l’iscrizione è «atto dovuto» solo quando ci sono «indizi specifici», emersi dalla necessaria «valutazione» del pm sul contenuto delle notizie di reato. Tale circolare, però, non solo è soccombente rispetto alla norma di rango costituzionale, ma non si applica al caso specifico, spiega Azzariti. «La circolare vuole evitare le iscrizioni frettolose e a tal fine è necessario accertare la sussistenza dei fatti prima di avviare l’indagine», sottolinea.

Nel caso in questione, dunque, Lo Voi si è mosso entro i confini di quella prima verifica, unico lavoro di accertamento concesso. «La procura doveva verificare la sussistenza del fatto e che lo stesso sia astrattamente codificabile come reato. Ma non si sta indagando, non si sta stabilendo la fondatezza della denuncia di Li Gotti – sottolinea -. Qui siamo di fronte ad una comunicazione a tutela dei soggetti interessati che in questa fase, certamente, non hanno nulla da temere. Ed è molto plausibile che tra 90 giorni tutto si fermi con il no del Parlamento a procedere». Solo una volta superato il vaglio del Tribunale dei Ministri, infatti, inizierebbe l’indagine vera e propria.

Ma il fatto giuridicamente, oltre che politicamente, più controverso, secondo il costituzionalista, è la scelta di non dare seguito ad una richiesta di arresto da parte della Cpi. «Il fatto che l’Italia, qualunque sia la ragione, non abbia risposto ad una esplicita richiesta della Corte penale internazionale è un fatto discutibile – sottolinea -. Credo che a questo il governo dovrà dare risposte, non a un giudice, ma a due soggetti: al Parlamento, in sede politica, e alla Corte penale internazionale. E a me, come giurista, questo secondo aspetto preoccupa più del primo: oggi il diritto internazionale si è infragilito e c’è insofferenza nei confronti della Cpi e del diritto internazionale stesso. La cosa è certamente preoccupante. E rilevo con stupore che a fronte delle richieste della Cpi il governo abbia reagito chiedendo chiarimenti sul perché ci abbia messo 12 giorni per emanare un mandato d’arresto. Pensare che la Corte penale internazionale complotti contro il governo italiano è una cosa che mi lascia incredulo – conclude – e soprattutto credo che sarebbe cosa buona e giusta salvaguardare la giurisdizione di un tribunale che è stato istituito a Roma».
Di parere totalmente contrario la Giunta dell’Unione delle Camere penali: «Come chiarito fin dal 2009 dalle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione, con la famosa sentenza “Lattanzi” – si legge in una nota -, il pubblico ministero è onerato di verificare se le condotte descritte nell’eventuale esposto possano essere ritenute, anche solo astrattamente, penalmente rilevanti, e ove questo giudizio dia esito negativo, non deve procedere ad alcuna iscrizione. La legge costituzionale numero 1 del 1989 che prevede poi, per i reati che si ipotizza siano stati commessi dal presidente del Consiglio dei ministri e dai ministri nell’esercizio delle loro funzioni, l’obbligo di avviso alle persone interessate e la trasmissione al Tribunale dei Ministri, deve ovviamente essere letta alla luce della regola generale. Ne discende che non esistono automatismi». Non sarebbe dunque dovuta «l’iscrizione di una notizia che non abbia un minimo di fondamento e tale valutazione spetta, appunto, al pubblico ministero».
Il caso Almasri, secondo l’avvocato Nicola Canestrini, penalista esperto di diritto internazionale, «costituisce un grave precedente», dal momento che il nostro Paese, come Stato parte della Cpi, «ha l’obbligo inderogabile di cooperare con la Corte ai sensi degli articoli 86-89 dello Statuto di Roma». Il che potrebbe comportare una indagine della Cpi «per mancata cooperazione», con ripercussioni politiche e giuridiche: «L’Ue e le Nazioni unite – spiega – potrebbero intervenire, data l’autorizzazione della missione della Cpi in Libia tramite la Risoluzione Onu 1970/2011». 



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