“Con la riforma della giustizia governo vuole indebolire l’autonomia dei pm”

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Il presidente uscente dell’Anm Giuseppe Santalucia spiega in un’intervista a Fanpage.it perché i magistrati protestano contro la riforma della giustizia e in particolare contro la separazione delle carriere: “Siamo preoccupati, Nordio vuole indebolire le garanzie di autonomia e indipendenza del pubblico ministero, perché lo considera un organo incontrollato e incontrollabile”.

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Il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia sta per terminare il suo mandato, iniziato nel 2020: il prossimo 8 febbraio, dopo che si sono svolte le votazioni per il rinnovo degli organi del sindacato – la più votata è stata la lista Magistratura indipendente, corrente di centrodestra dei magistrati – saranno nominati i nuovi vertici.

Santalucia conclude il suo incarico in una situazione di tensione tra governo e gran parte della magistratura. Il caso Almasri, iniziato con la scarcerazione del generale libico e culminato con l’avviso di garanzia arrivato ieri alla premier Meloni e ai ministri Nordio e Piantedosi, con accuse reciproche tra esecutivo e magistrati, è solo la puntata finale di una schermaglia che va avanti da mesi. Lo scontro aperto, che vede impegnato il presidente dell’Anm anche negli ultimi giorni di mandato, è legato soprattutto alla riforma della giustizia: il ddl voluto da Nordio, che contiene la separazione delle carriere dei tra magistratura requirente e giudicante, la conseguente creazione di due Csm e l’istituzione di un’Alta Corte disciplinare, ha avuto il primo sì alla Camera, lo scorso 16 gennaio.

Sta per finire il suo mandato da presidente dell’Anm. Le elezioni per il rinnovo del direttivo si sono svolte in un clima rovente. Sabato scorso la protesta dei magistrati, poi l’annuncio dello sciopero il prossimo 27 febbraio. Ci spiega che momento è questo per la magistratura?

Più che un momento di protesta, è un momento di grande preoccupazione perché il governo e la maggioranza di governo ha deciso di blindare un testo, che ci è stato rappresentato prima di essere trasmesso alle Camere dal ministro di Giustizia, ma in termini sostanziali di immodificabilità. Ci è stato detto che è un testo voluto dagli elettori, perché faceva parte del programma elettorale della maggioranza che ha vinto le elezioni. La blindatura del testo in sede parlamentare ci ha molto sorpreso, perché una cosa è non parlarne con l’Associazione nazionale magistrati, un’altra è impedire una discussione su un testo costituzionale. Ci è sembrata una scelta poco opportuna e ci dà l’idea di un percorso parlamentare estremamente rapido a questo punto, i tre passaggi parlamentari che seguiranno saranno sostanzialmente all’insegna della blindatura.

Quindi abbiamo pensato che le ragioni della contrarietà non potranno trovare ascolto in un Parlamento che ha deciso di correre sul testo. Ci affideremo alla consultazione referendaria, perché, come si sa, se il testo di riforma costituzionale non ha i 2/3 di maggioranza in Parlamento deve essere confermato da un referendum. E proprio in vista del referendum abbiamo cercato di attirare l’attenzione di tutti, approfittando del giorno di inaugurazione dell’anno giudiziario nei vari distretti, non per protestare quanto per manifestare una viva preoccupazione, attirare l’attenzione dei media e quindi della pubblica opinione.

Il governo, però, vi accusa di non essere aperti al dialogo e dice che in questo modo si apre uno scontro tra poteri. Per questo ha ritenuto “inopportuna” la vostra protesta…

Noi il dialogo lo abbiamo coltivato sempre, abbiamo accolto sempre con estrema attenzione tutti gli inviti del ministro. Non ci sono stati rappresentati margini di discussione perché appunto ci è stato detto che il testo risponde ad un programma elettorale, quindi ad una volontà popolare. A questo punto potremmo proporre solo modifiche marginali. Il problema è il nucleo centrale della riforma, il riassetto di un equilibrio tra politica e giustizia che, a nostro giudizio, ha retto benissimo in tutti questi anni. Il legislatore ordinario avrà mano molto libera nel ridisegnare un’architettura di relazioni tra i poteri, questo ci preoccupa. Ci dicano dove e come è possibile migliorare il testo e certamente noi non ci sottrarremo all’ascolto.

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Ci può spiegare concretamente quali sono i rischi di questa riforma? 

Il rischio complessivo è un indebolimento dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura. Perché si separano le due magistrature, cioè pubblici ministeri e giudici che oggi fanno parte di un corpo unitario e sono governati dal Consiglio superiore della magistratura. Si creano due Csm, e la separazione sarà la premessa per dire che le due magistrature sono distinte, non solo per le funzioni, come è già adesso. Vorrei ricordare che i magistrati e il pubblico ministero sono nettamente distinti, già oggi la legge impedisce i passaggi da una funzione all’altra, ne consente uno solo nell’intera carriera di un magistrato, ma addirittura con il cambio di Regione. Quindi non c’è possibilità di contaminazione tra le funzioni.

La separazione delle carriere comporterà che ciascuna magistratura sarà governata dal proprio Csm e aprirà alla possibilità, direi certezza, che i gradi di autonomia delle due magistrature saranno qualitativamente diversi. Se il giudice è distinto dal pubblico ministero, vuol dire che il pubblico ministero non parteciperà delle stesse garanzie di autonomia e indipendenza del giudice. Giorni fa il ministro Nordio è stato in Parlamento per la relazione annuale, e ha detto che oggi il pubblico ministero compie abusi, clona processi, sottopone i cittadini ad anni e anni di indagini senza senso, perché gode delle stesse garanzie di un giudice. Questo è la chiave di lettura della riforma: si vogliono indebolire le garanzie del pubblico ministero perché oggi, avendo le stesse garanzie di un giudice, secondo il ministro e secondo questa prospettiva riformatrice, è un organo incontrollato e incontrollabile. Ovviamente la premessa è errata, ingiusta, falsa. Ma è questa la premessa da cui muove tutto il disegno di riforma.

Secondo voi la separazione delle carriere dei magistrati porterà il pubblico ministero sempre più sotto il controllo del potere esecutivo. Questo passaggio però non è scritto nel testo della riforma e nella nostra Costituzione c’è l’obbligatorietà dell’azione penale. Non è una tutela sufficiente per l’indipendenza del pm?

Sì, l’obbligatorietà dell’azione penale resta. Quando fu varato il testo in Consiglio dei ministri si diceva che l’obbligatorietà doveva essere cassata, poi è rimasta. Si dice che il pubblico ministero è autonomo, e lo si dice anche nel nuovo testo di riforma, e si dice che l’azione penale è obbligatoria. Però, intendiamoci, il pubblico ministero già oggi può essere organizzato con maggiore gerarchia di quanto avviene per il giudicante. Domani la distinzione qualitativa delle due autonomie darà mano libera al legislatore ordinario per organizzare in maniera molto più netta, gerarchicamente, con un capo al vertice, il pubblico ministero.

Quando si gerarchizza, la possibilità di un’influenza di poteri esterni rispetto all’intero apparato, è assai più semplice. Quello che oggi caratterizza il pubblico ministero insieme al giudice, è la cosiddetta diffusività del potere, non c’è una gerarchia. I pubblici ministeri e le varie procure della Repubblica non rispondono ad un vertice. Domani sarà più facile creare un vertice, che potrà dare direttive. Non occorrono grandi riforme per penetrare all’interno di un corpo gerarchicamente organizzato e l’organizzazione gerarchica sarà possibile una volta che si sono separate le due magistrature. Se no perché separarle? Se si vuole mantenere lo stesso grado di autonomia, perché mettere mano alla riforma? Io credo che il ministro Nordio in questo sia di una sincerità apprezzabile, alle Camere dice le cose come le pensa: secondo il ministro un pubblico ministero che oggi gode delle garanzie del giudice, è un pubblico ministero che va riformato. Quindi mettono mano alla riforma perché questo grado di indipendenza e autonomia del pubblico ministero, non piace.

Ci sono però altre democrazie, come gli Stati Uniti, il Regno Unito, la Germania, la Francia, in cui la magistratura requirente deve comunque rispondere del proprio operato ai governi o, a seconda dei casi, agli elettori. In quesi sistemi vede degli squilibri?

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So benissimo che in molti paesi democratici l’azione penale rientra nei programmi di governo. Però se questo è l’intento, che lo si dica. Dopodiché i cittadini si esprimeranno, diranno se è giusto o no. È un problema di chiarezza. In questo modo stiamo aggirando la questione centrale: perché mettiamo mano al pubblico ministero? Perché appunto guardiamo ad altri Paesi. Negli Stati Uniti è elettivo, l’azione penale risponde agli umori dell’elettorato. In Francia e in Germania il pm riceve ordini e istruzioni dal ministro. Ma in Francia e Germania la Corte di Giustizia dell’Unione europea non ha riconosciuto a quei pubblici ministeri quel grado di autonomia e indipendenza necessario a qualificarli come autorità giudiziarie in senso europeo. Vogliamo arretrare sul piano delle garanzie?

Sul caso Almasri oggi in Parlamento era prevista un’informativa dei ministri Piantedosi e Nordio, poi saltata dopo l’arrivo dell’avviso di garanzia per gli stessi ministri per la premier, e per il sottosegretario Mantovano. Meloni ha detto che il generale libico è stato liberato su disposizione della magistratura non per volontà politica. Perché secondo lei non regge questa ricostruzione? 

L’Associazione magistrati è intervenuta solamente per precisare, perché ci è sembrato ingiusto che la responsabilità fosse attribuita alla magistratura, in base a quanto è scritto nel provvedimento della Corte d’Appello. La cooperazione tra l’Italia e la Corte penale internazionale è mediata dalla figura del ministro di Giustizia. Questo è scritto nella legge. Il ministro di Giustizia è stato interpellato dalla Procura generale della Corte d’Appello che, semplificando, ha chiesto cosa dovesse fare di questo generale libico. E il ministro della Giustizia si è sottratto a questo interpello.

Preso atto del silenzio dell’autorità politica, la Procura generale non ha potuto fare altro che scarcerarlo, questo è quello che c’è scritto nell’ordinanza. Quindi, formalmente, si tratta di un provvedimento della Corte di appello e dell’autorità giudiziaria, ma quest’ultima ha soltanto preso atto del silenzio del ministro, interpretandolo come assenza di volontà politica di restringere cautelarmente il generale libico. Non è stata una scelta di discrezionalità dell’autorità giudiziaria. Sono scelte dell’autorità politica, che non sindachiamo, però che sia chiaro che non sono state scelte della magistratura.





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