Il tempo dei manganelli, finito con le cene dei giovani della “nuova destra”

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Tarchi, Solinas, Del Ninno, Umberto Croppi e gli altri intellettuali che resero desueto il termine “fascismo”. La loro storia la racconta bene il recente libro di Giovanni Tarantino, “La chiamavano Nuova destra”


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Mezzo secolo fa nientemeno. Non so più se erano gli ultimi giorni del 1979 o i primissimi del 1980. Un pomeriggio, di cui ho un ricordo nettissimo, in cui tre o quattro di noi strusciavamo lungo i muri di Roma con l’aria di nasconderci, di evitare che qualcuno sapesse che cosa stavamo andando a fare. Era ancora l’epoca in cui a separare quelli di sinistra da quelli di destra c’era qualcosa di più imperioso che il Muro di Berlino. Tra gli uni e gli altri intercorrevano solo maledizioni, minacce, insulti. Peggio ancora. Ci si ammazzava per strada senza una qualche ragione,  l’importante era colpire per primi qualcuno che stesse dall’altra parte. Lo sapete tutti quel che accadde innanzi alla sezione romana del Msi di via Acca Larentia, dove rimasero uccisi tre giovani militanti di destra.

Beninteso,  non che tutti a destra e a sinistra ragionassero così, e ci mancherebbe altro, ma una non piccola parte senz’altro: magari  non le facevano quelle porcherie, ma approvavano i “compagni” o i “camerati” che lo facevano. E comunque era inaudito che gli uni e gli altri facessero gruppo una sera in una casa privata durante una cena amicale. Eppure era proprio quello che noi ci accingevamo a fare, Massimo Cacciari e io (marchiatissimi a sinistra), Marcello Veneziani (un astro della cultura di “destra”) e un altro paio di amici men che trentenni che non ricordo esattamente quali, anche loro di destra. Tutti assieme a cena in casa di uno di noi. Durante la cena le opinioni erano contrastanti, il rispetto reciproco fuori discussione.

A destra stava difatti nascendo, era nata anzi, una nuova sensibilità culturale. S’era conquistata la prima fila un gruppo di intellettuali di talento che si erano autodenominati di “nuova destra”, dal fiorentino Marco Tarchi al sardo Stenio Solinas, da Giuseppe Del Ninno a Beppe Nanni, tutta gente che si rifiutava alla pratica del “torcicollo fanatico”, del guardare indietro a trovare ragioni che alimentassero l’odio di parte per come aveva imperversato in Italia dall’avvento del fascismo e sino alla sua tragica conclusione. Quegli anni dominati dall’epica dei mitra e dei manganelli. Laddove noi, quattro o cinque ragazzi  a cena una sera di quasi mezzo secolo fa, volevamo capire cos’era stata l’Italia dal tempo delle trincee della Prima Guerra Mondiale fino al giorno del tripudio di tanti italiani tutt’attorno ai cadaveri appesi a Piazzale Loreto.

Credo che tutt’ora il tema sia attuale, per non dire bruciante. In tanti continuano a usare la parola “fascisti” come di gente addobbata e attrezzata alla maniera degli squadristi del 1922, solo che quei tipacci non esistono più. La nascita del gruppo intellettuale che ebbe nome “nuova destra” prese a intaccare la scacchiera della politica italiana o per lo meno quello spicchio della scacchiera frequentata dai ventenni e dai trentenni di allora.

E’ una storia che ben racconta il recente libro di Giovanni Tarantino, La chiamavano Nuova destra (il Palindromo, 2024), un giornalista palermitano che appartenne a quegli ambienti. Leggetelo e capirete meglio di che pasta ideologica siamo fatti oggi e come parole quali “fascismo” e “antifascismo” non corrispondano più a qualcosa di reale nella società che ci circonda.  Quanto a Tarchi, Solinas, Del Ninno, Umberto Croppi, loro oggi non sono per me dei possibili quanto efferati avversari, bensì degli amici con cui, quando ci incontriamo, confrontiamo  storie personali e intellettuali, il punto di partenza di quelle storie e il loro punto di approdo.

La casa editrice Settecolori, scaturita dai personaggi di cui ho detto, è una bellissima casa editrice, una sorta di Adelphi di destra. Racconto tutto questo con un pizzico di vanteria personale, perché esattamente al tempo della cena da cui sono partito, Rai 2 (diretta da un socialista) diede a me e al regista William Azzella (più o meno mio coetaneo) di che costruire un documentario televisivo su questa “nuova destra” di cui nessuno sapeva nulla. Io e William agimmo di pieno accordo nel cercare di capire e raccontarlo. Mi sembrò che nel Msi vero e proprio questi ragazzi non fossero apprezzati al massimo. Il capo dei giovani missini, Gianfranco Fini, rifiutò di farsi intervistare. Lo stesso fece Giorgio Almirante, malgrado le insistenze mie e di William. Un paio di giorni dopo che il documentario era apparso sugli schermi di Rai 2, mi telefonò l’assistente di Almirante a dirmi che il segretario del Msi era pronto a farsi intervistare. Ne vennero quattro pagine pubblicate sull’Europeo diretto da Claudio Rinaldi. Il tempo dei manganelli e dei mitra era bell’e sepolto già allora. Quel che è venuto dopo, fino all’avvento di Giorgia Meloni alla presidenza del Consiglio, è tutt’altra storia.





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