Caro Marco,
mi ha colpito molto il tuo romanzo “Preferisco sparire. Colloqui con Robert Walser 1954-1956”, ispirato alla vicenda esistenziale di Robert Walser. Dalla prefazione di Massimo Barbaro:
«Nato a Biel nel 1878, nel Cantone di Berna, da un commerciante dell’Appenzell e da una casalinga dell’Emmenthal, penultimo di otto tra fratelli e sorelle, frequentò la scuola fino ai quattordici anni. Fu in seguito apprendista in una banca, per tre anni. Visse a Basilea, Stoccarda, Zurigo, lavorando come impiegato fino ai trent’anni, età in cui iniziò sporadici tentativi di scrittura. Poi si sposta a Berlino, per sette anni, e compie senza successo alcuni tentativi teatrali. Poi è valletto da camera di un conte, nell’Alta Slesia. Ritorna in Svizzera, a Biel, poi a Berna. Sono anni sereni e produttivi, con un buon successo letterario. Nel 1929 il primo ricovero nella clinica Waldau a Berna, dopo disturbi fisici e psichici, e i primi segni di inaridimento creativo. Vi resta fino al 1933, quando subisce l’ultimo definitivo internamento nella casa di cura a Herisau, vicino Biel. Vivrà ancora ventitré anni, senza mai più scrivere. Muore il 25 dicembre 1956. Solitario, scontroso, portato dall’osservazione realistica a risalire alla trasfigurazione surrealistica, sempre sconcertante e propenso a una dolorosa ironia, scrisse in rapida successione tre romanzi a sfondo autobiografico: Die Geschwister Tanner
(1907), Der Gehülfe (1908), Jakob von Gunten (1909); in quest’ultimo, Kafka ravvisò elementi precursori della sua sensibilità e della sua stessa opera. Walser diede il meglio di sé nella prosa breve e impressionistica, incisiva, aforismatica: oltre mille brani e talora frammenti, raccolti solo parzialmente dallo stesso Walser (Aufsätze, 1913; Geschichten, 1914; Prosastücke, 1917; Kleine Prosa, 1917; Seeland, 1919-20; Die rose, 1925), e oggetto di numerose edizioni postume (Dichtungen in Prosa, a cura di C. Seelig, 5 voll., 1953-62; ecc.). Postumo (1975) è anche il romanzo Der Räuber (scritto nel 1925). Walser deve molta della sua notorietà a Carl Seelig, e al suo libro Passeggiate con Robert Walser. Per anni, il critico svizzero ha incontrato l’amico scrittore rinchiuso in casa di cura – ma ancor più in se stesso – e lo ha accompagnato in lunghissime gite, a piedi, a volte in treno, nell’Appenzell, interrompendo la continuità della sua solitudine. Walser era un uomo che camminava; con ogni stagione, in ogni condizione di tempo. Con Seelig parlava di sé, del suo mondo, dei suoi piaceri, delle sue avversioni. Seelig si è preso cura di lui, ricavandone in cambio particolari dal vivo, spontanei, al punto tale che sembra anche a noi di passeggiare con Walser. Da Seelig abbiamo potuto sapere che a Walser piacevano le ragazze («dal petto di cigno»), il buon Pinot nero, che non la letteratura lo commuoveva, ma i boschi, l’acqua, gli odori, i colori. Walser morì camminando. Da solo. Sulla neve, il giorno di Natale. Incontrò due bambini che lo videro cadere e lo soccorsero. Riferirono che morì con un sorriso sulle labbra. A distanza di tempo, la vicenda di Walser continua a far presa sulle nostre sensibilità di contemporanei che hanno in qualche modo assorbito e assimilato le atmosfere decadentiste, impressioniste, crepuscolari, le apparentemente sterili rivolte dadaiste e surrealiste, attraversato the Age of Anxiety e la fine del secolo, visto iniziare il millennio, ma a cui l’inizio del secolo è decisamente sfuggito. Con prospettive confuse e deformate, abbiamo guardato così lontano da non poter più adattare lo sguardo alle distanze ravvicinate. Walser aveva trovato la sua soluzione. Come suo solito, Ercolani si industria nell’arte dell’indicazione di soluzioni architettonicamente coraggiose. Paradisi piranesiani, soluzioni che ci piacerebbe adottare, cui vorremmo aderire, ma irrimediabilmente lontane e fuori dalla portata di esistenze che un tempo avremmo aggettivato come borghesi: l’arte, la follia, la rinuncia. Senza far rumore, il Walser di Ercolani sceglie una soluzione che le abbraccia tutte e tre. L’ultima, probabilmente, è quella più contenitiva: rinunciare, rinunciarsi, sottrarsi. Con un moto attivo, e non passivo: «mi sono fatto aprire io le porte di questo luogo»; e per una risposta etica («un insopprimibile bisogno etico»): «etico è sparire. Non esserci più in mezzo alle persone che credono di essere vive. E quale luogo migliore di questo per affermarlo in modo definitivo, con la complicità della vostra inutile scienza?». Quale luogo migliore, quando l’eterotopia, quando nessun altro luogo è possibile? Dove è possibile trovare pace? «Ora posso intrecciare canestri e legare pacchi. Guardare scorrere le stagioni. Scrivere poesie e godermi la loro inesistenza. Il tempo in cui dovevo dire chi sono […] è passato da un pezzo». La domanda del dove può trovare solo risposta in un luogo, nel passaggio stretto tra interiorità e
esterno. Confluenza nella quale le acque si mescolano. Si confondono. In mezzo alla natura c’è la nostra natura, quella ormai persa, oggetto dei rimpianti di un’«età dell’oro» che molto probabilmente non è mai esistita – ma il mondo non ha sussistenza alcuna al di fuori della nostra interiorità. Come nelle due scene finali di Brazil di Terry Gilliam: l’ingiustizia estrema – seconda solo all’annientamento fisico – essere privati della nostra umanità e animalità, essere ridotti a uno stato vegetale (come è noto, il potere non si è mai privato di nessuna delle scelte possibili) è l’unico modo di realizzare il sogno. Ma poi, cos’è questo sogno? Cosa ci serve? Cosa è veramente necessario? Una vita nella natura. Un filo di fumo in lontananza
che esce da un camino, da una capanna di lamiera. Degli affetti. Niente di meno letterario. Di meno umano. L’uscita dall’umano, la fascinazione di E.M. Cioran per il minerale…
Cosa è davvero necessario? Camus lo trova per caso, in E.A. Poe: la vita all’aperto, l’amore «di una creatura», il distacco da qualsiasi ambizione, la creazione. Questa è la via walseriana di Ercolani: Tutta la mia vita deriva da una frase di Melville. Preferirei di no. Così ho perso la mia vita. In quel «preferirei». Non ho mai detto «preferisco». Sono stato nel no come nel sì.
Se mi obbligavano, copiavo lettere ossequiose nella mia camera. Se non mi dicevano niente, fissavo il muro, come tanti Meravigliosi Scrittori che mai scrissero nulla. «Preferirei»: nell’uso di quel condizionale risiede una fortissima portata immedesimativa, il vorrei ma non posso che
ci fa essere tutti un po’ artisti, un po’ folli, ma mai in fondo; predisposti, sensibili, appunto, ma mai sino in fondo. Eppure, un bisogno di non essere scava profondamente dentro di noi, un’eterotopia, un bisogno dell’altrove ormai privo di obiettivi esterni – visti i fallimenti sia dell’impegno sociale, sia delle false rinunce pseudo-ascetiche – che ora rivolgiamo contro noi stessi, al nostro interno. La rinuncia walseriana parla a quel nostro bisogno di non essere, al nichilismo latente che tutti albergano intimamente ma che tutti negano, sempre assicurandosi di chiudere bene gli accessi ai compartimenti – stagni – di cui è fatta la nostra interiorità. La routine, la quotidianità, il dover abbassare la voce anche nel momento
della rabbia sociale e dell’imprecazione politica. E esistenziale.”»
Si tratta dunque di una conversazione immaginaria tra Robert Walser e il suo psichiatra, il dottor Weiss, in cui, caro Marco, insceni il dramma walseriano di non volersi confrontare con i contemporanei. “Preferisco sparire” fa pensare all’istituto Benjamenta del romanzo di Walser “Jakob von Gunten”, che fa vivere il protagonista Jakob nell’anonimato, nella più totale mediocrità, nel desiderio di diventarne uno zero, e tale mediocrità è un esercizio di stile, per vivere fuori dall’illusione egoica di credersi un io, di essere qualcuno.
«Obbedisco. Servo il mio sogno di servire. Lo faccio perché i servi scelgono i padroni, non i padroni i servi. E così sono libero.
Ma ho descritto troppe volte i dettagli del mio sogno, e in troppi libri. Questo è male. Mi disturba che mie parole troppo chiare esistano ancora, che vadano sempre in giro. Sono stato un millantatore. Il sogno ha bisogno di bambini taciturni. Io ero un taciturno superbo di parole, gonfio come un pavone di tante, tante, tantissime parole.»
Si tratta di un disprezzo che Robert Walser nutre per i suoi contemporanei? Di una vocazione all’obbedienza? Di un esordio psicotico?
Caro Marco, io leggo le tue parole “preferisco sparire” come una salvezza, quella sparizione pura che ci risparmia dalla nudità stessa, quel coprirsi e fuggire dall’occhio vorace e crudele dell’altro che giudica e squalifica, e tale giudizio e squalifica è una sentenza di morte. Piuttosto che lasciarmi uccidere dal giudizio mi strappo via dal mondo, esalo, mi dissipo, esco fuori mediante un processo estatico di via di fuga dalla medesimezza, dall’identità sociale che altri hanno costruito sulla mia persona, sulla mia scrittura.
«Tutta la mia vita deriva da una frase di MelvilPreferirei di no. Così ho perso la mia vita. In quel «preferirei». Non ho mai detto «preferisco». Sono stato nel no come nel sì.
Se mi obbligavano, copiavo lettere ossequiose nella mia camera. Se non mi dicevano niente, fissavo il muro, come tanti Meravigliosi Scrittori che mai scrissero
nulla.»
Preferirei di no? Per cosa? Per chi? Per fuggire dal mondo, o dal persecutore interno, per fuggire dal mutarsi della mia scrittura in luogo di pubblico dominio e di pubblico plauso o disdoro. Preferirei: preferirei di no, preferisco sparire. Robert Walser, con il suo Jakob, la cui aspirazione è di diventare uno zero tondo tondo, anela la dissoluzione, la via mistica della sparizione, della consegna della propria parola alle vertigini e agli abissi delle forze cosmiche. E tu hai carpito l’essenza di Walser, come l’essenza di Kafka ne “L’età della ferita”, che è questo profondo appartenere alla letteratura per dissipare la realtà e l’identità.
«Non ricordo molti nomi degli autori del passato. Ricordo opere prodigiose, insostituibili, ma che mi importa sapere se sono di Omero, di Goethe, di Tolstoi? Al lettore non interessa chi si sia consumato
la vita a scriverle. Loro esistono. Per chi, nel futuro, le renderà presenti leggendole ancora. Ecco, Weiss, il passato non esiste. Non è mai esistito. Posso dirtelo io che, a Herisau, ho incontrato un uomo depresso e antipatico, si chiama Alessandro Magno e parla a scatti, arrabbiato, stupidamente arrabbiato. Ha il nome di chi conquistò terre e sgominò eserciti, ed è lì che piange, depresso, per una donna sciocca. Ah la misera beffa dei nomi!»
Sai, penso che la scissione schizoide sia il prezzo da pagare per fare letteratura. Lo credo sempre con maggiore convinzione. Più vai in profondità nella ricerca linguistica più ti allontani dal senso comune. Dicevo ieri al nostro comune amico Alfonso Guida: «Credo che la tua scelta l’abbia fatta, e che sia una scelta coraggiosa. Le tue poesie sono bellissime, non comprensibili da tutti, ma impeccabili, inattaccabili dal punto di vista letterario. Io sono sempre sul crinale, e non so se scegliere la letteratura, e dunque il dolore, la solitudine, la scissione, l’eterna condanna, o se tornare indietro, e scegliere di fingermi normale, il che significherebbe fare un passo inedito rispetto alla ricerca letteraria. Io sento in te una scelta radicale. La ammiro. Vorrei avere la tua forza, la tua stessa obbedienza alla vocazione.»
Tale pensiero, e tale domanda aperta la ripropongo a te, Marco, che sei tra gli intellettuali da me più stimati, insieme al caro Alfonso: esiste davvero questo bivio infernale in cui ci è dato di scegliere tra vita e letteratura?
Con profonda devozione,
tua,
Ilaria
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