Mediobanca, l’istituto creato da Enrico Cuccia all’insegna dell’antifascismo. Con ops di Mps si va verso la fine di un’epoca?

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Mediobanca svolge la sua assemblea il 28 ottobre perché Enrico Cuccia voleva celebrare a suo modo, lavorando e non stando inerte, la marcia su Roma. Cuccia era sposato con la figlia di Alberto Beneduce, l’inventore dell’Iri, Idea Nuova Socialista, una moglie e insieme un manifesto di vita.

Chiunque abbia varcato la soglia della banca, dietro la Scala e a due passi dal Duomo, e abbia respirato l’odore retrò delle boiserie e del mobilio non di design sa che lì dentro c’è qualcosa di particolare: l’idea di potere che aveva la borghesia illuminata milanese, sempre al centro delle rivoluzioni che hanno forgiato il nostro Paese, dal Risorgimento alla Liberazione fino a Tangentopoli.

Cosa rappresenta oggi Mediobanca? La domanda di ieri diventa interrogativo di oggi, nel momento in cui è stata lanciata da Mps un’offerta pubblica di scambio che ha come obiettivo quello di controllare a cascata le Generali.

Gli addetti ai lavori e gli storici conoscono il ruolo di Piazzetta Cuccia, già Via Filodrammatici, negli anni della nascita della nostra Repubblica e in quelli della liberazione dal nazifascismo, ma se uno volesse una testimonianza diretta dall’interno di quelle stanze con il parquet che scricchiola può trovarla nelle parole di Cuccia.

Era il 1987, a Firenze, e l’occasione per il siciliano trapiantato a Milano fu quella di ricordare la figura di Raffaele Mattioli, l’uomo il cui ufficio a piazza della Scala si affacciava su una finestra della casa di Alessandro Manzoni, ricevendone evidenti motivi di ispirazione: una stanza bellissima, che oggi si può visitare grazie alla trasformazione in museo della storica sede della Banca Commerciale Italiana voluta dal ceo di Intesa Sanpaolo, Carlo Messina.

In quell’ufficio, dotato di un camino e di poche suppellettili, il banchiere dei banchieri portò avanti le sue creature, Comit e Mediobanca: i dioscuri della finanza italiana, con la prima in veste di madre della seconda.

Come nacque Mediobanca nelle parole di Cuccia

Perché è nata la banca d’affari che per decenni è stata il centro delle operazioni e delle partecipazioni più importanti del Paese? Lo ha spiegato Cuccia quel giorno ormai lontano. «L’idea di Mediobanca ha una data di nascita o, forse, sarebbe meglio dire, di concepimento: qualche giorno dopo il Ferragosto del 1944, nell’Ufficio di Rappresentanza della Comit a Roma, in piazza Santi Apostoli, Mattioli ed io parlammo per la prima volta della nuova creatura. Il nome che Mattioli suggerì fu “Unionbanca” in quanto sin dal primo momento l’iniziativa non fu vista da lui come un affare controllato dalla sola Comit, ma come un’impresa a cui avrebbero dovuto partecipare le tre banche di interesse nazionale, cinque banche di diritto pubblico, la Banca d’America e d’Italia, il Banco di Santo Spirito, le Assicurazioni Generali, la Ras, l’Ina e, infine, la Bastogi: quattordici soci, che avrebbero dovuto sottoscrivere tutti insieme un capitale di 1.250 milioni, con due quote di 250 milioni ciascuna, sottoscritte dalla Comit e dal Credito e una di 150 milioni dal Banco di Roma, in modo da assicurare complessivamente alle B.I.N. la maggioranza nel capitale del nuovo ente».

Nell’agosto 1944 l’Italia era ancora divisa in due e non era possibile raccogliere il parere del vertice operativo del Credito Italiano, la cui adesione era ritenuta determinante per un serio avvio della proposta. Nell’inverno del 1944-45 ebbe luogo la cosiddetta “missione Mattioli-Quintieri” a Washington e il lavoro, racconta ancora Cuccia, di progettazione e di sviluppo rimase «en veilleuse» sino alla primavera successiva, quando, dopo la Liberazione, il banchiere fu incaricato da Mattioli di prendere contatto a Milano con il “Signor Brughera”, amministratore delegato del Credito Italiano. La risposta fu di piena adesione con qualche riserva sulla rosa dei possibili partner.

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La ricostruzione antifascista di Milano. E dell’Italia

Che ratio aveva creare sulle macerie di un Paese distrutto un’impresa di tal genere? Lo storico presidente di Mediobanca, scomparso nel 2000, lo racconta subito dopo. Mattioli era convinto che la «ricostruzione» avrebbe consentito alle imprese, messe più speditamente in grado di riprendere la produzione, di generare un cash-flow  sufficiente ad ammortizzare in tempi relativamente rapidi i nuovi investimenti; ne sarebbe conseguito – come di fatto poi avvenne – che la struttura dei finanziamenti a medio termine sarebbe risultata assimilabile, anche dal punto di vista dell’istruttoria e delle garanzie, piuttosto alle operazioni a breve termine che non a quelle ipotecarie a lungo termine.

Ma che cosa si doveva intendere per “medio termine”? In un primo tempo Mattioli propose una durata massima di tre anni, sia per le operazioni di finanziamento che per quelle di raccolta; successivamente, estese fino a quattro anni il vincolo della raccolta; nell’edizione definitiva del primo Statuto di Mediobanca, la scadenza massima venne fissata in cinque anni, sia per le operazioni attive, che per quelle passive.

Insomma, la ratio della banca era quella di assicurare facilmente e velocemente credito alle imprese nello sforzo supremo della ricostruzione, una cosa che ancora oggi è fondamentale per le aziende italiane, soprattutto per le piccole e medie che combattono ogni giorno sui mercati internazionali e che sono alla base del boom del nostro export, in quanto l’Italia è il quarto Paese esportatore al mondo senza essere la quarta economia del pianeta.

Il pallino in mano alle autorità dell’ops

Della necessità di fare presto Mattioli era pienamente consapevole. E consapevoli di quello che rappresenta Mediobanca nella nostra storia devono esserlo anche coloro che vogliono conquistarne il controllo, se il mercato e le autorizzazioni della Bce, della Banca d’Italia e della Consob glielo permetteranno.

Luigi Lovaglio e Nico Maione, ceo e presidente di Mps, Francesco Milleri, tutti gli eredi di Leonardo Del Vecchio, che con Delfin, srl lussemburghese, ne diverrebbero primi azionisti, Francesco Gaetano Caltagirone, insieme al ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, sanno perfettamente che questa scalata, comunque andrà a finire, resterà nelle cronache e forse nei libri di storia.

  • Leggi anche: Mps- Mediobanca, dietro l’ops interessi convergenti di Lovaglio, Caltagirone, Delfin e governo. E Nagel si protegge con il mercato

La Storia, quella con la S maiuscola, l’aveva già scritta Mattioli, il quale un giorno, prima che il progetto vedesse la luce nel 1946, si era confidato all’Iri con Beneduce: «Occorre evitare che la congiuntura attuale e dell’immediato dopoguerra riporti fatalmente le banche di credito ordinario a trasformarsi in banche d’affari». Ecco l’idea, più capitalista che socialista: una banca di nuovo conio, senza sportelli. Un ufficio di sostegno per le aziende.

«Arrivano i Longobardi». Ora arriveranno i romani?

Proprio nel periodo di avvio del lavoro di Mediobanca, Donato Menichella, governatore della Banca d’Italia nel dopoguerra e autore della celebre battuta poi attribuita a Cuccia, «le azioni si pesano e non si contano», accolse un giorno Cuccia con uno scherzoso «arrivano i Longobardi», un’esclamazione abituale di Bonaldo Stringher, il primo governatore, quando egli ricordava la crisi del 1929-34 che il banchiere centrale collegava provocatoriamente alla nascita della banca d’affari italiana.

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Lo scherzo restò tale e Mediobanca non innestò nessuna nuova crisi finanziaria. Anzi oggi si potrebbe dire che al posto dei longobardi a Milano potrebbero arrivare i romani in un curioso scherzo del destino che a Cuccia non sarebbe piaciuto come non piace all’attuale ad, Alberto Nagel.

La scommessa di Mattioli fu quella di prevedere che nessuna banca commerciale si sarebbe messa a fare credito a medio termine. Una scommessa vinta. La storia del nostro Paese è poi andata avanti con il boom economico, la costruzione dell’Autostrada del Sole, conquistata dalle macchine prodotte dalla Fiat, il boom della Borsa di Milano, il benessere diffuso e poi la frenata dovuta all’inizio della globalizzazione, il dominio dei signori del petrolio, gli anni di piombo, Mani Pulite e le prime privatizzazioni.

L’era della privatizzazione

Mediobanca, proprio per come fu concepita, è legata a filo doppio all’uscita dello Stato dall’economia perché essa stessa si privatizzò congedando dal suo capitale le tre banche di interesse nazionale, Comit compresa.

Questa sua trasformazione è andata di pari passo con la grande stagione delle dismissioni, iniziata nel 1992, quando il governo di Giuliano Amato, in piena Tangentopoli e bufera finanziaria, in un colpo solo varò una manovra da 93.000 miliardi di vecchie lire, un prelievo sui depositi bancari, la trasformazione in spa di Enel, Eni e Iri, e l’apertura al mercato del capitale delle banche a quel tempo pubbliche.

Proprio allora l’Autorità Antitrust muoveva i primi passi. Un organismo che lo stesso Amato avrebbe guidato analizzando con un’indagine conoscitiva il potere di Cuccia e dei suoi collaboratori nella finanza italiana.

La posizione dominante di Mediobanca

La rivoluzione silenziosa della nostra economia decretò anche la fine della fissazione di molti prezzi amministrati e la costruzione, un po’ a mani nude, di mercati fondamentali come quelli assicurativi, bancari, petroliferi e telefonici. Proprio quelli che nel corso degli anni Piazzetta Cuccia seguiva con grande attenzione e una presenza per alcuni ingombrante, dimostrata secondo questi ultimi nei crack Ligresti e Ferruzzi.

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In questo contesto, il ruolo di Mediobanca, già parzialmente aperta al capitale privato, fu esiziale, una volta che anche le banche che ne detenevano una quota, Comit e Credit in primis, divennero private. Cambiava il regista delle operazioni perché cambiava il mondo ma soprattutto la natura dei suoi azionisti.

A fare da arbitro ci pensarono all’inizio lo stesso governo, che doveva fare cassa con le vendite dei suoi gioielli, e l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, ideata da Guido Rossi, la quale si occupò appunto di redigere un dossier sull’attività dell’allora Via Filodrammatici.

I giovani funzionari del neonato garante definirono così l’attività della banca d’affari: «Nei servizi di consulenza e di guida per il collocamento di azioni di società già quotate e i servizi di assistenza alle imprese in situazioni di crisi e di ristrutturazione del debito, la situazione concorrenziale appare critica, in considerazione della presenza stabile di un operatore, Mediobanca, in posizione dominante».

La merchant bank delle privatizzazioni

Enrico Cuccia, ormai divenuto lo storico presidente di Mediobanca, non fece una piega, ma comunque si recò a Roma a parlare direttamente con Giuliano Amato: non si sa mai cosa bolle in pentola a Roma. Effettivamente il potere di guidare la crescita del sistema industriale italiano verso il mercato unico e l’unione monetaria stava passando di mano e Mediobanca rischiava di diventare marginale rispetto a questa rivoluzione. Cuccia lo aveva intuito e cercò di rientrare in partita offrendosi al governo come possibile collocatore di società presso investitori stranieri: di soldi ne servivano parecchi. Così in silenzio, alla sua maniera, si fece avanti.

È una storia anche questa pressoché inedita ai lettori di Milano Finanza, che ho rivelato nel mio libro Disuguaglianze dopo aver letto un volume di Piero Barucci sulla tempesta finanziaria del 1992. Proprio durante il governo di salute pubblica guidato dal presidente emerito della Corte Costituzionale, non appena la lira uscì fuori dal Sistema Monetario Europeo, si celebrò una cena riservatissima sul panfilo della corona inglese, il Britannia. Protagonisti, tra gli altri, un allora giovanissimo direttore generale del Ministero del Tesoro, Mario Draghi, i capitani d’industria, vari manager pubblici e alcuni tra gli esponenti più importanti della finanza internazionale.

La consulenza pagata una lira

Quello storico meeting segnò appunto l’inizio delle vendite di Stato. Forse perché non invitato a quel simposio marittimo o semplicemente per approfittare dell’occasione che gli offrivano le privatizzazioni, Cuccia chiamò un giorno l’amico Barucci, ministro del Tesoro di Amato, per proporgli un libro verde sulle privatizzazioni che spiegava come, dove e a che prezzo farle. Una Bibbia che a quell’epoca sarebbe potuta valere miliardi, di incassi per lo Stato e di commissioni per il banchiere.

Eppure, nonostante il sacro rispetto che il padre di Mediobanca aveva per il denaro, Cuccia per quel lavoro non chiese alcuna parcella. Solo una lira, a titolo simbolico, come ha rivelato a suo tempo Fulvio Coltorti. Cuccia pretese però che la piccola moneta fosse coniata per l’occasione: forse aveva capito che avrebbe assunto un grande valore in futuro, per l’avvento dell’euro.

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Procedura celere

 

Ieri per una lira si offrì una mega-consulenza, oggi servono oltre 13 miliardi di euro per entrare da padroni nel salotto buono della finanza, tornato di moda in quanto ha un bell’affaccio su Trieste. Stavolta i soldi si dovranno contare e non pesare, segno dei tempi. (riproduzione riservata)



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