La Solleder d’inverno non ama il ronzìo dei fornelli. Nel 1963, durante la prima invernale della via, il bruciatore a benzina di Toni Hiebeler si blocca per mancanza di carburante, costringendo Ignazio Piussi ad accendere, per cinque interminabili sere, dei fuocherelli alimentati con pezzi di cunei di legno.
Trentasette anni dopo, un alpinista di Lecco affronta da solo la stessa parete. Si chiama Marco Anghileri, ha 27 anni, gli amici lo chiamano “Butch” o “Bacc”, ha scelto di festeggiare il nuovo millennio lanciandosi d’inverno su quella muraglia gigantesca. Dopo quattro giorni in parete, mentre prepara il bivacco, anche il suo fornello si ferma.
Due anni prima, in un tentativo invernale, Marco è dovuto scendere dopo il primo bivacco perché il fornello non si accendeva. Ora il guaio arriva alla fine, e si continua. Un appiglio ghiacciato dopo l’altro, il 18 gennaio, Anghileri raggiunge l’uscita della parete e la cima.
Gli alpinisti di Lecco e dintorni sono sempre stati di casa sulla Civetta. Nel 1935 Riccardo Cassin e Vittorio Ratti salgono lo spigolo Sud-est della Torre Trieste. Nel 1963 Giorgio Redaelli partecipa alla prima invernale della Solleder.
I fratelli Giovanni e Antonio Rusconi aprono in venti giorni dell’inverno 1972 la Via dei Cinque di Valmadrera, e compiono un anno dopo la prima invernale della Philipp-Flamm, insieme a Gian Battista Crimella e Giorgio Tessari. Gian Battista Villa partecipa alla prima salita, Giuliano Fabbrica alla seconda. Compiono belle salite sul massiccio anche Casimiro Ferrari e Aldo Anghileri, padre e maestro di montagna di Marco.
Per chi arriva da un ambiente come questo, la Solleder d’inverno non è un sogno proibito. Marco la tenta nel 1998, ma viene fermato dal fornello che si blocca. Le condizioni della montagna sono perfette, e nei mesi che seguono pensa che forse avrebbe dovuto continuare. Forse avrebbe potuto farcela con un solo bivacco. Forse una borraccia d’acqua sarebbe potuta bastare. Ma l’alpinismo è fatto di scelte, e la prudenza resta una buona consigliera.
Nell’estate del 1998 Marco sale la Solleder con un amico. Nel gennaio che segue sale in auto con l’equipaggiamento, telefona a un amico di Alleghe e scopre che sulla Civetta nevica. Il cocktail giusto tra le condizioni della montagna e la voglia di mettersi alla prova arriva all’inizio del 2000.
La decisione arriva all’improvviso. Negli ultimi mesi dell’anno l’obiettivo di Marco era un 8a in falesia, poi un’invernale sul Legnone gli ha fatto venire voglia di grandi montagne. Le condizioni sulla Civetta sono ottime, non nevica da venti giorni. Si va.
Cronaca di una salita epica
Il 13 gennaio Marco è ad Alleghe, l’indomani si fa portare da un gatto delle nevi fino al termine delle piste da sci. Poi, per ore, trasporta il saccone (33 chili, che si riducono alla metà in parete quando corde, ramponi e chiodi e accessori vari sono in uso) fino alla base della Solleder.
Prima del buio l’alpinista piazza delle corde fisse sui primi tiri, poi si sistema a dormire in una grotta di neve. Può togliersi l’imbragatura, ed è l’ultima volta che si concede questo lusso. Anche stavolta, nel sacco a pelo, un pensiero si fa strada.
Le condizioni sui primi tiri duri sono ottime, anche sulla fessura di sesto grado Marco riesce a salire in scarpette. Forse è possibile abbandonare il saccone, salire con velocità e leggerezza, arrivare sulla cima con un solo bivacco.
Ma poi la prudenza e l’esperienza prevalgono. Marco ha alle spalle altre grandi invernali, sa che dal basso tutto sembra bello, e che la neve e il ghiaccio sulle cenge e sugli appigli si scoprono quando ci si arriva. A convincerlo a non fare imprudenze è il pensiero del lungo traverso del secondo giorno, dove sarà necessario assicurarsi per bene.
Dal secondo giorno la solitaria invernale alla Solleder diventa una faticosa routine. Su in arrampicata, autoassicurandosi con il grigri. Giù a riprendere il saccone, e su di nuovo con le jumar per portare in alto lo zaino. Solo in quattro lunghezze, su una cinquantina, Marco riesce a issare il saccone dall’alto. Il suo saliscendi, a parte l’attrezzatura più moderna, è lo stesso delle solitarie di Walter Bonatti e di Renato Casarotto.
Dopo i primi tiri, che includono la famosa fessura, le scarpette tornano nel saccone per restarci. Poi si va “in scarponi, ramponi e guanti, senza poter mai utilizzare le prese piatte, ma adottando tutta una tecnica di spinta e prese verticali, ovviamente con molta attenzione e lentezza”.
Marco sistema il secondo bivacco su un terrazzino che ha scavato nel pendio all’inizio del traverso, poi passa la terza notte su un gradino esposto al vento, dove il freddo e la paura di congelamenti lo costringono a partire prima dell’alba, alla luce della frontale. Il quarto giorno fatica a superare la cascata per mancanza delle piccozze adatte. La sera lo accoglie un buco più comodo, ma il fornello si blocca.
Non c’è solo la sfortuna, però. Il secondo giorno a Marco cade l’indispensabile grigri, che si ferma su un nevaio e può essere recuperato. Poi un sasso cade nel punto che l’alpinista ha lasciato da pochi secondi. Alla fine, dove le difficoltà diminuiscono e le pietre non cadono più, i nemici sono la disidratazione e il freddo. “Madonna che giornata! Vento così non l’ho mai sentito, e tutta questa neve portata mi dà un sacco di problemi ad arrampicare”, annota.
“Forza Marco, che manca ancora un tiro. Mano destra in appoggio, la sinistra non sulla lama che si utilizza d’estate ma su questa tacchetta che è l’unica. Così è troppo duro, ma lo sai che è l’unico modo. Quante volte ti sei trovato in queste situazioni anche in falesia, quante volte hai capito che o vai su subito o niente, poi molli. Dai che la tieni, dai! Grazie anche all’avambraccio da 8a. Vedi che tutto serve, anche Finale Ligure e i suoi spit!”
Marco arriva in cima all’imbrunire, il gelo che blocca il flash gli impedisce di scattare una foto. Urla per dare sfogo alla gioia, poi arriva al rifugio Torrani, dove si getta su una torta che qualcuno ha abbandonato a Capodanno. Con una candela scongela due lattine di Lemonsoda, che beve avidamente.
Una discesa faticosa
L’indomani la stanchezza si sente, e la traversata verso la ferrata degli Alleghesi costa fatica a un alpinista che, in condizioni normali, potrebbe compierla correndo. Alla fine delle rocce, papà Aldo e tre amici sono lì ad abbracciarlo.
Marco accende il cellulare per chiamare la sua ragazza, ma questo squilla prima di digitare il numero. E’ Giorgio Redaelli, protagonista dell’invernale di trentasette anni prima, che vuole congratularsi. Dalla Grigna alla Civetta, come sul Cerro Torre o sul McKinley, gli alpinisti di Lecco restano sempre uniti.
Tredici anni dopo, purtroppo, un’altra invernale solitaria causa la morte di Marco Anghileri. All’inizio di marzo del 2014, l’alpinista di Lecco parte da solo per tentare la via Jöri Bardill, tracciata dagli svizzeri Michel Piola e Pierre-Alain Steiner sul Pilone Centrale del Monte Bianco.
Quattro giorni più tardi, il Soccorso Alpino valdostano recupera il suo corpo sul ghiacciaio, dopo seicento metri di volo. “Sono nel posto più bello del mondo” aveva scritto Marco nel suo ultimo sms, inviato ad Arnaud Clavel, guida di Courmayeur e suo amico.
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