Stallo in Rai e sul tax credit, la cultura è alla deriva ma nessuno reagisce. Paura di ritorsioni?

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Un “marziano” che sbarcasse in Italia e si concentrasse sulle condizioni di salute del sistema culturale osserverebbe lo stato disastroso sia dell’offerta sia del consumo: sempre meno sale cinematografiche e sempre meno edicole, indicatori della fruizione culturale ai peggiori livelli dell’Europa… Pochi spettatori nei cinema, pochi lettori di libri e quotidiani, intere aree del Paese desertificate a livello di offerta, enorme divario tra i consumi culturali del Nord e del Sud.

Eppure, non si registrano grida di allarme, se non in rarissime occasioni e da parte di soggetti che sono “fuori dal coro” dei poteri forti e delle piccole e tante “lobby” del sistema, dai cinematografari dell’Anica ai televisivi dell’Apa (entrambe in Confindustria) per arrivare agli editori dell’Aie (tutte associate in Confindustria Cultura) e della Fieg. E che dire dello stallo nel quale stagna da mesi la Rai, con un ridicolo quanto penoso conflitto infra-partitocratico rispetto alla possibile presidenza affidata alla candidata Simona Agnes, sostenuta da Forza Italia?

A livello politico, si continua a registrare soltanto l’entusiasmo ostinato della senatrice sottosegretaria Lucia Borgonzoni, unica esponente della Lega Salvini ad intervenire in materia di “politica culturale”, e soprattutto su cinema e audiovisivo (ma ha anche la delega per le “industrie culturali e creative”, ovvero moda, design, architettura). In Fratelli d’Italia, si nota soltanto l’iperpresenzialismo del deputato Federico Mollicone, presidente della Commissione Cultura della Camera, e sempre candidato a guidare il Collegio Romano, ove la premier Giorgia Meloni ha però preferito due “intellettuali di area”, dapprima lo sventurato Gennaro Sangiuliano e poi il leggiadro Alessandro Giuli.

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A livello di opposizioni, nessun segnale di vita, se non da parte di alcuni esponenti del Movimento 5 Stelle, la deputata ed ex sottosegretaria Anna Laura Orrico ed il suo collega Gaetano Amato, il quale, pochi giorni fa, a fronte del rischio di fallimento di molte imprese cinematografiche, ha nuovamente chiesto al ministro Giuli di revocare le deleghe alla Borgonzoni.

Va anche segnalato che di fatto nessun quotidiano italiano dedica attenzione minima e continuativa al sistema culturale, inteso soprattutto nella sua struttura politica-economica-tecnologica. Il silenzio dei media viene talvolta rotto da interventi critici di Leonardo Bison e di Thomas Mackinson, su il Fatto Quotidiano, con un approccio tipico del giornalismo investigativo: in particolare, i riflettori sono stati accesi in alcune occasioni su quello che nessuno sembra avere il coraggio di definire a chiare lettere “lo scandalo del tax credit”, ovvero la mala gestione di miliardi di euro di risorse pubbliche per uno strumento – qual è il credito di imposta – che ha prodotto, nella applicazione maldestra della “Legge Franceschini” (la n. 220 del 2016), una vera e propria “bolla”, economica ma anche culturale.

Una legge che è stata gestita senza gli adeguati strumenti di controllo e senza vere valutazioni di impatto. Ed “improvvisamente” – udite udite… – anche la Ragioniera Generale dello Stato Daria Perrotta ha scoperto che, dal 2017 al 2023, c’è stato uno “splafonamento” (un buco di bilancio cioè) di 1 miliardo di euro.

Nell’arco di pochi anni, lo Stato ha iniettato nel sistema una quantità enorme di risorse, trascurando lo spettacolo dal vivo (teatro, musica, danza), alimentando una “industria” autoreferenziale ed assistita: l’Italia produce una gran quantità di “film cinematografici”, buona parte dei quali paradossalmente nemmeno esce nei cinematografi, e, se vi esce, registrano incassi spesso penosi.

Pochi mesi dopo l’insediamento del governo Meloni nel settembre del 2022, l’ex ministro Gennaro Sangiuliano si è reso conto che l’ottimismo della “sua” Sottosegretaria Lucia Borgonzoni era piuttosto cieco, ed ha imposto una chiusura dei rubinetti dell’alimentazione pubblica al settore, annunciando una “riforma” della Legge Franceschini, che ha vissuto una gestazione poco pubblica e assai ritardata. Di fatto, sono state ascoltate soltanto le lobby Anica ed Apa (entrambe in Confindustria), e tutte le altre anime del settore cine-audiovisivo sono state ignorate: dalle associazioni dei piccoli produttori (tra le quali Confartigianato Cinema e Audiovisivo) alle associazioni degli autori (da Anac a 100autori), per non dire delle associazioni degli attori e dei professionisti (direttori di fotografia, scenografici, tecnici…) ed infine dei lavoratori.

Ormai da un anno e mezzo – dall’estate del 2023, annuncio della “riforma” – il sistema cine-audiovisivo è di fatto in stagnazione, con gli “studios” di Cinecittà quasi deserti e con un Ministero della Cultura che è in enorme ritardo nella approvazione di decreti operativi e nelle sue ordinarie procedure burocratiche di sostegno al settore: basti osservare a fine gennaio 2025 non è stata ancora pubblicata la graduatoria dei festival cinematografici che andranno a ricevere un contributo pubblico per attività che hanno svolto nel 2024 (!). Già soltanto questo “episodio”, che ha del surreale, conferma le condizioni patologiche del sistema culturale italiano.

Eppure rare anzi rarissime sono le voci critiche. Una cappa di silenzio e passività caratterizza la quasi totalità degli operatori: in verità, i più hanno timore che, alzando la voce, possano essere penalizzati dal Principe. Prevale insomma la paura di ritorsioni. Tra i pochi intrepidi dissidenti, meritano essere segnalati i lavoratori del Comitato #Siamoaititolidicoda, la cui voce – come per tanti altri – resta inascoltato nelle stanze del Palazzo. Nel mentre, la sottosegretaria Borgonzoni continua serenamente a ballare nei gran saloni del Titanic.



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