«Fiume o morte!» tra vecchi e nuovi fascismi

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Sono passati cinque anni dalla nomina di Vanja Kaludjercic alla direzione del Festival di Rotterdam, il primo appuntamento dell’anno per l’industria cinematografica internazionale in Europa, che trova qui dei referenti importanti di produzione, networking e sostegno soprattutto a favore di quel cinema indipendente più marginalizzato che è al centro dell’Hubert Bals Found, il fondo che prende il nome dal fondatore della rassegna olandese. Per la direttrice l’inizio è stato complesso, il gennaio del suo primo anno infatti ha coinciso con l’esplosione della pandemia – l’edizione successiva è stata online – in una città già in allarme, col quartiere cinese di solito pieno di feste per il Capodanno deserto, e un sentimento di disagio diffuso. Sembra un altro tempo – e un altro universo, e anche il festival in questi anni ha preso una nuova direzione.
La prima differenza visibile, rispetto a una storia che nei decenni ha visto comunque molti cambiamenti nel passaggio da evento super indie a grossa macchina industriale – è la predominanza dell’Industry, insieme a una programmazione che mischia un po’ di tutto, al cui interno è facile perdersi – per chi guarda e per gli stessi film. È chiaro che l’obiettivo è quello di conquistare un maggiore pubblico cittadino e non – quindi più biglietti ecc – e un appeal di mercato rispetto al più importante evento della Berlinale, al tempo stesso però ciò non impedirebbe di disegnare il programma in modo mirato e meno bulimico – che sa sempre di «non scelta». Difficile perciò dire che festival è questo 2025, nel quale si ritrovano in anteprima nazionale molti film visti altrove, e fra concorso e altre sezioni le prime mondiali. Possiamo dire però che la parola chiave è «inclusività»; vale per molte delle storie narrate e per la policy del festival, quasi a dichiarare il suo essere uno spazio «altro» in un Paese che invece alle ultime elezioni ha scelto la destra estrema islamofoba e razzista di Geert Wilders, al governo con una coalizione, e dove a dispetto della superficie «polite» di luoghi ecosostenibili e amicali, i report dicono che almeno il 50% delle persone musulmane ha subito un’aggressione razzista. Dunque? Come sempre le etichette servono a poco.

«CERCO di non ripetere troppo la parola fascista per non infastidire gli spettatori italiani» dice un po’ ironico nelle prime sequenze del suo film Igor Bezinovic, giovane regista di Rijeka, laurea in filosofia e sociologia insieme al diploma di regia all’Accademia di cinema di Zagabria, in gara nel Concorso Tiger con Fiume o morte! Si parla, come dichiara il titolo di Gabriele D’Annunzio e dell’«impresa» che lo portò nel 1919 a Fiume, oggi appunto Rijeka, per riconquistarla contro gli accordi di Parigi che alla fine della Prima Guerra Mondiale proponevano di darla alla-Jugoslavia, allontanando a un certo punto l’esercito italiano dopo una serie di violenze culminate con l’uccisione di molti soldati vietnamiti dell’esercito francese.Ma quella che mette in scena Bezinovic non è una ricostruzione storica in senso tradizionale né degli eventi né della figura di D’Annunzio; piuttosto è un’investigazione di ciò che rimane oggi nella memoria collettiva di quell’esperienza tracciando attraverso di essa, e nelle diverse opinioni raccolte, una mappa della storia dentro al presente.

ECCOLO in strada a chiedere alle persone che incontra se sanno chi è D’Annunzio. La maggior parte – non solo i più giovani – risponde di no, anche se in città molti luoghi conservano il suo nome, scuole, caserme, c’è persino un asilo che era intitolato alla madre del «Vate» pescarese, Luisa. Forse si preferisce dimenticare, suggerisce una ragazza. Altri invece rispondono semplicemente: «un fascista italiano che ha occupato la nostra città per sedici mesi». Altri ancora «un fascista ma anche un poeta e un seduttore», «un bruto e uno spirito poetico, un malato mentale». Una donna che lo sa si definisce poi una pioniera di Tito, «l’ultima generazione» afferma un po’ malinconica – ma questa è un’altra storia. O forse è la stessa? Perché a quel luogo si intrecciano molti degli eventi che hanno segnato il Novecento, la cui eco risuona nel contemporaneo di nuovi fascismi e nazionalismi. Fiume che insieme a Trieste era il principale porto dell’allora Impero austro-ungarico, un luogo in cui si mescolavano lingue e culture, annessa infine all’Italia fascista dopo l’esperienza di città autonoma – nel caos lasciato da D’Annunzio – tornata alla Jugoslavia, oggi in Croazia. Bezinovic convoca un gruppo di donne e di uomini di età diverse proponendogli di «reinterpretare» quella storia. L’iconografia è suggerita dalle migliaia di fotografie e dai materiali di archivio, si parlerà croato e fiumano, il dialetto italiano, che pochi ancora conoscono, mentre il passaggio da una parte all’altra riprende vita nelle esperienze «reali» dei diversi protagonisti.

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Una scena da «L’arbre de l’authenticité» di Sammy Baloji

LUI, D’ANNUNZIO, che a cinquantadue anni si getta nel conflitto mondiale esaltando la guerra, si fa portatore della nascita e dell’affermazione dell’ideologia fascista – fra le lettere che spedisce prima di avventurarsi a Fiume ce ne è anche una al suo giovane amico Benito Mussolini mentre in quella rimozione degli eventi nella narrazione croata – che è stata uno dei motivi a spingere l’autore a realizzare il film, come ha raccontato lui stesso: «Non avevo mai trovato questa storia sui libri di scuola, l’ho appresa da un amico italiano» – si manifestano le contraddizioni e i rimossi del passato. Le tracce sono lì, nelle strade, nei ponti rimasti in piedi, in qualcosa che è sopito ma mai davvero affrontato, negli estremismi a cui adesso assistiamo – i Mega di Musk? Fiume o morte! – che uscirà con Wanted in Italia – è insomma un bell’esempio di storia declinata al presente, che sa intrecciare gli eventi suggerendone una lettura che rispecchia il nostro mondo.
La stessa linea che segue, seppure con una forma completamente diversa Sammy Baloji in L’arbre de l’authenticité, un film-saggio realizzato prima della crisi che sta devastando la Repubblica democratica del Congo ma che nel ripercorrere la sua storia coloniale ne coglie molte delle radici comuni. L’idea è quella di lavorare sulla relazione fra colonialismo e ecologia e per farlo il regista congolese, che è anche fotografo e artista visuale, e che nel film parla anche del proprio ritorno nel paese d’origine, si rivolge ai materiali lasciati da due ricercatori che avevano lavorato in diversi momenti nella de stazione biologica di Yangambi, nel cuore della giungla del bacino del Congo, dimostrando come la giungla assorbe l’anidride carbonica prodotta nel resto del pianeta:. Paul Panda Farnana et Abiron Beirnaert.

«L’arbre de l’authenticité» di Sammy Baloji ripercorre la storia coloniale del Congo

IN PARTICOLARE la figura semi-sconosciuta di Farnana, primo funzionario coloniale africano si fa testimonianza di una società divisa, in cui i colonizzatori, in netta minoranza, escludono i colonizzati molto duramente. Quando parla di razzismo, quando suggerisce che la sua voce, anche come funzionario perfettamente competente e istruito, ha ancora meno peso di quella dei colonizzatori ci dice appunto di come quell’esperienza ha poi continuato a produrre nel postcolonialismo divisioni strumentali e sfruttamento a favore di altri fino a ora.
Fra (anche qui) la Grande Guerra nella quale Farnana è coinvolto – la morte dei due ricercatori rimane un mistero ancora – e i cimiteri attuali,Baloij non cerca di dare risposte, preferendo lasciare aperti le molte questioni che la sua ricerca pone, e su questo bordo afferma la sua forza politica.



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