Tre anni di guerra in Ucraina, gli affari (e le spese) italiane per le armi

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Materiale bellico donato, regalato, acquistato. Quali sono le conseguenze per le forze armate italiane e quali benefici per l’industria del settore, soprattutto quella tedesca. Tutti i numeri nell’inchiesta de l’Espresso

Anziché consultare gli aruspici, in attesa che Donald Trump spenga in due giorni una guerra che in Ucraina brucia da ormai tre anni, un indizio sul conflitto ci giunge dall’industria bellica, sempre preveggente e previdente. A L’Espresso risultano in corso numerose trattative del governo di Kiev con aziende private con sedi centrali o distaccate in Italia per forniture di materiale spesso diverso da quel tipo di materiale che solitamente è servito a reggere l’avanzata russa. Per esempio proiettili d’artiglieria, sistemi di difesa aerea, missili a media gittata. Lo scorso anno, ha appreso L’Espresso, l’Ucraina ha comprato, e ricevuto, armi fabbricate in Italia per 222 milioni di euro. Per armi fabbricate in Italia si intende pure quelle realizzate in stabilimenti di multinazionali come la tedesca Rheinmetall che, assieme alla controllata Rwm specializzata in bombe con impianti a Domusnovas in Sardegna, ha raggiunto quasi un miliardo di euro in esportazione nel 2023. Comunque i 222 milioni di euro di transiti verso l’Ucraina nel 2024 sono un dato inferiore ai 417 milioni assommati nel 2023 e assai superiore ai 3,8 del 2022, ma non riflettono l’andamento e, in particolare, il significato di questi negoziati che più fonti confermano. Le dogane registrano le spedizioni, dunque arrivano per ultime, dopo la fase di produzione, dopo la firma dei contratti. È facile prevedere un aumento del fatturato italiano per quest’anno, ma quel che interessa è che l’industria bellica si prepari a sostenere una specie di pace, pazienza se parecchio armata. Che non vuol dire affari in picchiata. Tutt’altro.

A tre anni dalla guerra è d’obbligo fare un computo, il più esatto possibile, del contributo economico italiano alla resistenza di Kiev contro l’invasore russo. Con una sorta di nota di lettura. I governi italiani, nessun partito escluso perché ci riferiamo a Meloni e pure a Draghi e tutti i partiti presenti in Parlamento sono stati in maggioranza in questi tre anni, non hanno un buon rapporto con la trasparenza. E Draghi, di certo, aveva più attenuanti di Meloni. Come ormai si è consolidato nel tempo, l’Italia spedisce armi a Kiev, un Paese impegnato in una guerra seppur dal lato giusto della guerra, in deroga alle norme esistenti grazie a un decreto legge del governo Draghi prorogato dal governo Meloni e lo fa attraverso decreti interministeriali, i cosiddetti pacchetti di aiuti. Siamo arrivati al decimo pacchetto, cinque a testa per il governo Draghi e il governo Meloni. Per varie ragioni più politiche che militari, l’Europa decise (febbraio 2022) di apporre il segreto sulle armi cedute gratuitamente a Kiev, soprattutto su indicazione dei tedeschi, che non volevano spaventare la pubblica opinione e dei francesi, che non volevano esibire carenze nei depositi. Parigi ha allentato il segreto, Berlino l’ha rimosso, l’Italia l’ha confermato. I dieci pacchetti in tre anni hanno un valore economico stimato e molto labile: stimato, per effetto del segreto; molto labile, perché riguarda dotazioni già in uso o addirittura in disuso. È capitato con dei carri armati pronti a essere rottamati. Ascoltate più fonti referenziate, la stima per i dieci pacchetti di aiuti è di circa 2,5 miliardi di euro con l’aggiunta di un 10 per cento di costi logistici per il trasferimento. Insomma, sotto i 3 miliardi di euro. Per dare un parametro complessivo, secondo le elaborazioni del Consiglio Europeo, per le forze armate ucraine i membri dell’Unione hanno speso 48,3 miliardi di euro, di cui 42,2 in maniera bilaterale e 6,1 con lo strumento Epf, acronimo che sta per European peace facility.

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Epf è un fondo utilizzato per la politica estera dell’Ue in scenari ingarbugliati. La guerra l’ha indirizzato principalmente alla causa di Kiev. La sua capienza è di 17 miliardi di euro dal 2021 al 2027. La gran parte, 11,1 miliardi, è destinata alle forze armate di Kiev. Un paio di miliardi sono serviti a finanzare un programma di munizionamento. Il meccanismo di Epf dovrebbe incentivare la generosità dei singoli eserciti: per ogni cento euro di armi cedute a Kiev, Epf ne può restituire da quaranta a sessanta euro. Il meccanismo è piaciuto moltissimo agli eserciti più piccini e malandati che hanno cercato di piazzare ferraglia del passato e assicurarsi così risorse da investire. La quota  di partecipazione a European peace facility in capo all’Italia è fissa: 12,8 per cento del totale, cioè 2,17 miliardi per l’intero Epf, 1,4 miliardi per l’Ucraina.

Il governo di Roma ha cominciato con bonifici da 60 milioni di euro, adesso sono previsti stanziamenti di 461 milioni per il 2025, 547 per il 2026, 544 per il 2027. A oggi l’Italia ha sborsato circa mezzo miliardo per Epf. Il grosso deve ancora venire.

Il computo parziale a beneficio delle forze armate di Kiev, il più esatto possibile, a oggi si aggira sui 3/3,5 miliardi di euro. A fronte di ritorni per l’industria bellica nazionale di parecchi miliardi perché, oltre ai 643 milioni di euro di acquisti del governo ucraino nel periodo 2022-2024, ci sono altri clienti europei che hanno ordinato in Italia e girato a Kiev. I 3/3,5 miliardi di euro, però, non comprendono il ricasco sulla Difesa che ha vuotato le rimesse per Kiev, ma poi ha prenotato nuove bombe e nuovi mezzi. Secondo Milex, l’osservatorio sulle spese militari italiane, dai programmi di armamento da avviare ai rincari sui programmi di armamento già avviati, circa 4,160 miliardi di euro sono riconducibili alla guerra in Ucraina, in pratica sono serviti a rimpiazzare il materiale bellico donato a Kiev: 14,5 milioni di euro per rafforzare la filiera per le munizioni; 808 milioni per missili e lanciamissili antiaerei spalleggiabili e veicolari; 51 milioni per scorte di missili anticarro Spike; 1,8 miliardi per obici semoventi ruotati; 1,3 miliardi  per l’incremento dei costi per cinque batterie missilistiche Samp/T con annessi razzi Aster; 186 milioni non previsti per batterie Shorad Grifo con missili Camm-Er.

Il senatore Bruno Marton, capogruppo dei Cinque Stelle in commissione Esteri e Difesa, fa un doppio discorso sulla trasparenza: «Solo la Difesa può sapere in che misura i programmi di riarmo nazionali sono destinati al ripianamento di scorte esaurite dagli invii in Ucraina. È qui che si nasconde il costo reale di questa operazione, perché una cosa è il valore che avevano le vecchie armi cedute, un’altra è quello delle nuove armi da comprare come rimpiazzo. Questa mancanza di informazioni è grave perché impedisce a noi parlamentari di giudicare con cognizione di causa gli acquisti di nuovi armamenti, su cui è chiaro che questo governo vuole le mani libere. Come dimostra anche la bocciatura del nostro emendamento al decreto Ucraina per consentire l’accesso a questi dati almeno ai membri delle commissioni Difesa». Anche i Cinque Stelle, nella travagliata stagione precedente alla scissione del gruppo di Luigi Di Maio, hanno approvato il soccorso bellico per l’Ucraina, proprio questo tema, brandito con enfasi da Giuseppe Conte, accelerò la caduta del governo Draghi. E su questo tema, sul supporto incondizionato al governo Kiev, il governo Meloni ha costruito la sua credibilità internazionale presso l’Unione Europea, gli Stati Uniti, l’Alleanza Atlantica. E adesso dovrà muoversi fra questi attori e la figura ineffabile del presidente Trump.

Alla vigilia delle elezioni americane, a ottobre, il Consiglio Europeo ha raggiunto un accordo, piegando le resistenze degli euroscettici e dei filorussi, per rimpinguare l’assistenza macrofinanziaria per l’Ucraina con un prestito di 35 miliardi di euro che può estendersi fino a 45 miliardi. Questo va ad aggiungersi ai 28,2 miliardi, necessari alla sopravvivenza delle strutture statali ucraine, elargiti nel biennio precedente sotto forma di agevolazioni e sovvenzioni. A metà gennaio il governo di Kiev ha incassato i primi 3 miliardi su 18,1 coperti con i proventi dei beni statali bloccati alla Russia. Al governo di Roma spetta la sua consistente quota. Altri miliardi, a rate.

Un eventuale disimpegno degli Stati Uniti in Europa, sia per le esigenze militari che per quelle finanziarie, dovrà essere riequilibrato da un maggiore coinvolgimento europeo e dunque italiano. La tattica del segreto non regge più. Se la democrazia muore nel buio, nel segreto non sta tanto meglio. Più che la democrazia, al governo Meloni preme il consenso. Si è ancora disposti a fare sacrifici per Kiev?



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