Filosofia minima del pendolare: il nuovo libro di Björn Larsson

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Alla voce “pendolare” il dizionario Treccani parla di sostantivo e/o aggettivo detto di chi si sposta quotidianamente per lavoro. “Pendolare” come verbo in italiano ancora non esiste. Ma da oggi “pendolare” come verbo entra ufficialmente nella nostra lingua.

Grazie a un curioso e bel pamphlet, Filosofia minima del pendolare (Iperborea), in cui il suo autore, lo scrittore svedese Björn Larsson, protagonista di Dedica 2017, gioca con i due significati di “pendolare” , dove il “pendolare” più che al dato sociologico riferito a una specifica categoria di lavoratori, i pendolari, viene riferito spesso a una concezione è condizione dell’esistenza, ne viene cioè sottolineato il portato filosofico. Il tutto con leggerezza, spesso con ironia e autoironia, avendo Larsson un po’ per dovere ma soprattutto per scelta consumato gli ultimi quarant’anni facendo il pendolare, meglio “pendolando” in mezza Europa, su treni,bus, aerei e perfino in barca a vela.

«Il titolo – ci spiega Larsson che presenterà il volume in prima nazionale a Pordenone domani, giovedì 6 alle 20.45 a San Francesco in una conversazione con Claudio Cattaruzz, curatore del festival Dedica, riassume il contenuto del libro. Che non è un trattato filosofico vero e proprio, ma non è neanche senza filosofia. Che è minima, appunto».

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«Ma il “pendolare” è un fenomeno che coinvolge milioni di persone, una massa enorme sulla quale non ci sono molti studi o racconti. E se tanta è la letteratura di viaggio, quasi niente c’è sul “pendolare” , che è altra cosa del viaggio, ma è pur sempre un qualcosa che condiziona la vita, e offre molti spunti di riflessione anche sulle cose del mondo e sull’esistenza in generale. Ed è quello che ho cercato di fare con questo libro. ”

Larsson questo “pendolare” lo chiama “un momento in cui si può tirare il fiato, in cui la vita resta come sospesa nell’aria” , “tre puntini tra parentesi” , che è poi il simbolo con cui nelle citazioni, ad esempio, indichiamo gli “omissis” , le parti che meno importano in un testo, quella non rilevanti, insomma un po’ come l’umanità che pendola.

«È esattamente così – conferma lo scrittore – una sorta di vuoto in cui la gente cerca di far passare il tempo più velocemente possibile, chiudendosi in una specie di bolla dove nessuno comunica con l’altro, oggi resa ancor più impenetrabile dall’uso compulsivo del cellulare. Il che ti isola, ti impedisce di sentirti parte di qualcosa di comune. ”

Lei, che nel libro parla di sè come testimone e come tale scrive in terza persona, si definisce un pendolare privilegiato.

«È perché l’ho scelto. Per due ragioni, la prima è che ho sempre voluto avere una distanza tra me e il lavoro, ma poi quando sono tornato in Svezia per stabilirmi perché ero stanchissimo di fare su e giù con la Danimarca, è successo che mi sono innamorato e da tredici anni faccio il pendolare d’amore più o meno una volta al mese tra la Svezia e l’Italia, dove vive la mia attuale compagna».

Come a dire che ci sono anche altri pendolarismi, oltre a quello di chi lo fa per lavoro?

«Ci sono molte categorie di persone, oltre ai lavoratori, che vivono questa condizione, e penso agli artisti, ai marinai, a coloro che trovano più confacente non fermarsi in un solo posto. È il loro un pendolarismo di scelta, il che da nuovi significati e ragioni al “pendolare”».

E che cosa si può capire del mondo e dei suoi accadimenti “pendolando” ?

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«Poca roba in realtà perché è come se la gente non facesse caso a ciò che succede fuori: tre puntini tra parentesi, appunto. Che farsi carico anche di questo renderebbe ancora più duro il “pendolare” : il mondo non entra, ognuno è chiuso in se stesso. Ma questo, ripeto, la dice lunga anche su come vanno le cose nel mondo. E penso ad esempio, alle paure che condizionano le scelte politiche, alle chiusure all’altro e al diverso, a un individualismo esasperato, alle ingiustizie sociali, al razzismo mai del tutto scomparso nelle nostre società».

A un certo punto lei scrive che a forza di “pendolare” ha perso la cognizione di “casa” , delle radici, di patria, e chiude poi il suo racconto con un deciso “per fortuna” . Perché?

«Perché per me è un bene, io oggi sono svedese, italiano, francese, danese, e questo mi ha profondamente arricchito. Molti invece faticano ad accettare un’identità multipla, mentre penso che sia un bene sentirsi a casa ovunque. Il che è quello che dovrebbe essere l’Europa, il sentirsi europei».

E invece stiamo assistendo a un dilagare di tendenze sovraniste, di chiusure dei confini…

«Perché la gente, forse per ignoranza o forse perché vittima di una certa propaganda, ha paura del cambiamento, che però è inevitabile, ineludibile».

Il suo rapporto con Pordenone?

«Di grande amicizia perché essere ospite di Dedica è come ricevere il Premio Nobel dei Festival, perché Dedica è unica, non c’è altra manifestazione di pari profondità, accoglienza e amicizia». 

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