Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa
Al direttore – Vorrei richiamare due dichiarazioni solo apparentemente molto distanti tra loro, mentre – a ben vedere – sono in oggettiva relazione diretta, qualora si abbia la voglia di confrontarle. La prima: l’on. Dario Parrini, deputato del Pd, in una lettera al direttore del Foglio (4 febbraio), circa lo spinoso nodo della relazione tra legge elettorale attuale ed elezioni politiche del 2027, si è pronunciato per un’unità delle forze di opposizione in grado di battere il centrodestra che preveda un accordo di coalizione “flessibile”, ovverosia vincolante relativamente ai collegi uninominali e ad “alcuni punti …programmatici e valoriali aggreganti”, ma non per la parte proporzionale dove ogni partito cercherà il voto alla propria lista. Ma qui arriva la seconda dichiarazione a complicare il quadro della proposta dell’on. Parrini, a mio parere. La segretaria del Pd, on. Elly Schlein, a un recente vertice del gruppo parlamentare dei socialisti europei ha affermato che “… Siamo a favore di una difesa comune europea, ma gli investimenti per la sicurezza non tolgano soldi alla spesa sociale”. Ora, messa così, la questione è politicamente male impostata: mettere in evidente alternativa difesa comune e spesa sociale vuol dire collocare il Pd ai margini della necessità reale di costruire una sinistra di governo in Europa e Italia. E, soprattutto, questa impostazione come può essere uno dei “punti … programmatici e valoriali aggreganti…” tra le forze di opposizione di cui parla l’on. Parrini per un’alternativa di governo alle prossime elezioni politiche? Più che una sinistra di governo e un centrosinistra credibile, in tal modo si avrà, al più, un cartello elettorale di forze per competere con l’avversario ma non per vincere.
Alberto Bianchi
Meglio un chiaro cartello elettorale per vincere che un incomprensibile pastrocchio per andare alle elezioni uniti senza dirlo a nessuno. Modello Magritte: ceci n’est pas une coalition.
Al direttore – Caro Cerasa, all’idiozia non c’è limite, ma persino nell’èra Trump-Musk ci dovrebbe essere un freno alle bugie. Nel parlare del libro “La vérité sur le Hamas et ses ‘idiots utiles’”, il Foglio scrive che Greenpeace non ha usato parole di compassione per le vittime israeliane. Poco importa se questa è l’opinione del giornale o dell’autore del libro, Michaël Prazan: un falso è un falso, chiunque lo diffonda. Ed è sulle catene di falsità che nella storia si è sempre costruito il nemico, a partire dalla tipizzazione del popolo ebraico. Nei suoi appelli, Greenpeace ha definito un “orrore” il conflitto, sin dal suo episodio scatenante del 7 ottobre 2023, e un “crimine di guerra” l’attacco ai civili, condannando tanto gli omicidi, le violenze e i rapimenti effettuati da Hamas, quanto la risposta eccessiva e indiscriminata delle autorità israeliane. Nel domandare sin dall’inizio il cessate il fuoco, abbiamo chiesto l’immediata restituzione di tutti gli ostaggi e dei civili illegalmente detenuti. Già nel 2023 scrivevamo: “Greenpeace è solidale con tutte le persone colpite. Nessun altro civile dovrebbe cadere vittima di questo conflitto. Se si permette che ciò continui, il ciclo di violenza continuerà e molti altri ne soffriranno. Siamo sconvolti dall’aumento dell’odio antisemita e islamofobico nelle ultime settimane nel mondo e siamo fermamente al fianco dei nostri amici e colleghi ebrei e musulmani”. A giugno 2024, abbiamo contato “più di 250 giorni dai terribili eventi del 7 ottobre, che hanno visto più di 1.200 israeliani uccisi in un solo giorno per mano di Hamas. Circa 250 persone sono state prese in ostaggio. 120 ostaggi sono ancora a Gaza. […] Chiediamo a Hamas di rilasciare immediatamente tutti gli ostaggi”. Nell’accogliere la nuova tregua, pochi giorni fa abbiamo nuovamente invitato la comunità internazionale a sostenere i civili coinvolti nel conflitto e lavorare “per assicurare una pace duratura in cui israeliani e palestinesi possano vivere fianco a fianco”. Tutto il resto è falso.
Andrea Pinchera, direttore comunicazione Greenpeace Italia
Risponde Giulio Meotti. Gentile Pinchera, grazie della risposta. Importa eccome se a parlare di Greenpeace è il libro di Michaël Prazan. In ogni caso potreste evitare di accostarvi agli stereotipi che nella storia hanno tanto fatto penare il popolo ebraico. Non bisogna mai prendersi troppo sul serio. La vostra posizione sul conflitto in corso a Gaza è migliore di quella di altre ong, ben più schierate: a vostro pro avete almeno la condanna dell’attacco di Hamas e la richiesta del rilascio degli ostaggi. Mentre è cerchiobottista, per non dire relativismo morale, la messa sullo stesso piano di un pogrom e la risposta militare del paese aggredito il 7 ottobre, come equiparare antisemitismo e islamofobia (sono due cose diverse). Quanto al desiderio che israeliani e palestinesi vivano fianco a fianco, chi potrebbe mai essere contrario? E’ falso affermare che nel vostro comunicato del 18 giugno 2024 chiedete anche l’embargo militare contro Israele? E’ falso affermare che questa richiesta equivale alla resa dell’aggredito, con buona pace dell’ecosistema mediorientale? Grazie e saluti.
Al direttore – Ieri facendo il solito giro nei reparti produttivi della nostra fabbrichetta ho constatato che il caso Almasri ai nostri operai interessa zero. Ci tenevo a farlo sapere a Elly Schlein e scrivervi mi sembrava l’unico modo possibile.
Corrado Beldì, presidente Laterlite S.p.A.
Al direttore – All’esercizio di ogni potere dovrebbe corrispondere l’assunzione di una responsabilità. Al contrario, in questa fase dell’oramai permanente conflitto fra potere politico e magistratura, si assiste a questa novità. Quella di un potere che esercita le sue più ampie facoltà senza tuttavia rivendicarne la paternità. Iscrivere qualcuno nel registro degli indagati è da parte di una procura legittima esplicazione del proprio potere. Ma l’iscrizione non è mai un “atto dovuto”, chiunque sia l’iscritto, un comune cittadino o il presidente del Consiglio, poiché l’operazione implica inevitabilmente una valutazione relativa all’esistenza dei presupposti previsti dalla legge. Perché negarlo nascondendosi dietro allo schermo improprio dell’“atto dovuto”? Giova al potere giudiziario trincerarsi dietro a un vincolo inesistente, esterno al proprio volere? Per quale motivo non rivendicare, invece, il legittimo e prudente esercizio delle proprie prerogative? E cosa giova, al governo, in questo teatro degli opposti, dire che a liberare Almasri è stata la magistratura con il suo “cavillo”, e non, al contrario, una sua deliberata inerzia, una sua scelta politica determinata dalla ragione di stato? Ciò che emerge, in questo immobile precipitare degli eventi, è proprio questa reciproca fuga dalla responsabilità. Essere responsabili significa, infatti, confrontarsi pubblicamente con i propri limiti e i “cavilli” e gli “atti dovuti” giovano esattamente a questo: a sfuggire al confronto con la realtà. Significa sottrarsi al vaglio di quella moralità necessaria a giustificare il proprio potere. E la mancanza di questo confronto si fa tanto più sentire in quanto la materia supera i confini dei soliti conflitti interni e implica l’inosservanza dei vincoli derivanti da un trattato internazionale, quello della Corte penale dell’Aia, competente su crimini di speciale gravità. E siamo consapevoli dell’importanza della giustizia sovranazionale dalla quale discende, con la tutela dei diritti fondamentali dell’uomo, anche la difesa dagli eccessi dei poteri giudiziari nazionali. Se vi erano e vi sono ragioni politiche per giustificare quella scelta di non ottemperare agli obblighi derivanti da quel trattato, le si spieghino e se invece vi è motivo di porre il segreto di stato su quel che è accaduto, lo si faccia. Ma se ciò accadrà la partita circa la moralità dell’esercizio di quel potere non sarà chiusa. Perché la terribile e perdurante realtà dei lager e delle carceri libiche, nelle quali si sarebbero consumati i crimini attribuiti al comandante Almasri, resta di fatto conseguenza di ben altri accordi siglati dai nostri governi.
Francesco Petrelli, presidente eletto dell’Unione delle camere penali italiane
“La Libia era ed è una questione di interesse nazionale al suo livello più alto: la sicurezza nazionale, cioè l’incolumità anche fisica di ogni cittadino. Un pezzo grande di sicurezza nazionale si gioca fuori dai confini nazionali. Cosa rende la Libia così indispensabile? Primo: è la base più avanzata dei trafficanti di esseri umani. Secondo: vi si gioca una partita energetica essenziale, come si è visto nella vicenda ucraina. Terzo: l’Africa è il principale incubatore di terrorismo internazionale e solo qualche anno fa la capitale moderna della Libia, Sirte, era in mano allo Stato islamico. Cosa avrei fatto io? Avrei utilizzato sin dall’inizio il tema della sicurezza nazionale: è netto. Ne imparai il senso nel 1998, vedendo che i tedeschi non ci chiesero l’estradizione dell’arrestato Öcalan, capo del Pkk curdo, benché avessero emesso per lui un mandato di cattura per terrorismo: c’erano in Germania le comunità turca e curda più importanti d’Europa, un processo avrebbe devastato la tenuta sociale”. Marco Minniti, sul Corriere della Sera di ieri: perfetto.
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