quando il capitale sono le relazioni

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I lavori di gruppo alla Settimana Sociale di Trieste – Cristian Gennari

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Viviamo certo, tra timori per l’irruzione dell’intelligenza artificiale e strappi populisti dopo le ultime elezioni americane, un’epoca difficile; ma è per altri versi un momento storico straordinario per la declinazione del messaggio e dei principi cristiani, a partire dalla Dottrina sociale della Chiesa. La potenza è nulla senza controllo, diceva una vecchia pubblicità di pneumatici. Parafrasando, l’intelligenza artificiale può essere devastante per la nostra civiltà se non è accompagnata da intelligenza relazionale.

La cultura cristiana ha un vantaggio comparato in questa materia, e la sua missione d’incarnazione nella società contemporanea deve ripartire dalla scala dei bisogni della persona, sulla quale scala le evidenze delle scienze sociali non lasciano alcun dubbio: non siamo solo homo economicus che ha bisogno di reddito e consumo.

Dal grido di disperazione dell’ultimo rapper fino al prodotto culturale più sofisticato, apprendiamo di essere soprattutto “uomini integrali”, bisognosi di qualità di vita e di relazioni, di generatività (di lasciare cioè una traccia, un impatto positivo con le nostre azioni nella vita degli altri), di connessione con qualcosa più grande di noi e cioè di trascendenza per il nostro insopprimibile desiderio di infinito. In tale ambito, il cristianesimo resta la risposta più completa – la vera “buona novella” – alla domanda di senso della persona.

Per riuscire a incidere, oggi, è necessario considerare la lacuna principale della nostra cultura. Dei tre principi della rivoluzione francese (libertà, eguaglianza e fraternità) si è approfondito, attraverso il pensiero liberale e quello socialista, i primi due, mentre la fraternità è finita in soffitta.

Ma una società che pure aspira a essere eguale e libera, senza fraternità è una società disumana. Basta guardare alla tragedia dei femminicidi, alle violenze domestiche, fino alle guerre e ai conflitti tra Stati, dove negoziazione e diplomazia (risposte pacifiche alle controversie) sembrano essere diventati dei disvalori.

La fraternità si declina oggi laicamente nel principio di intelligenza relazionale. Dove apprendiamo la “quinta operazione”, quella della cooperazione, che non viene insegnata a scuola ma è la più importante: scambio di doni, reciprocità, fiducia e meritevolezza di fiducia creano infatti quel capitale sociale che genera “superadditività” (uno con uno fa più di due), alimenta la ricchezza della nostra vita relazionale e affettiva, è il pilastro del successo professionale e organizzativo, fino a declinarsi nella giustizia riparativa e in quell’arte della de-escalation capace di disinnescare violenza e conflitti. È infine paradigma anche in economia: alcune delle storie d’impresa più straordinarie del nostro Paese sono il frutto di migliaia di piccoli produttori che si sono radunati in cooperative e consorzi per realizzare economie di scala e conquistare i mercati internazionali.

Negli ultimi anni, anche su questo giornale (si pensi al dorso L’Economia civile), è stato fatto un paziente lavoro di identificazione e racconto di buone pratiche. Sono state costruite reti sociali, organizzati eventi culturali fondanti come il Festival nazionale dell’economia civile e tanti altri. Abbiamo reso questa visione del mondo “paradigma economico” attraverso l’Economia civile, che ha prodotto un manifesto firmato da 350 colleghi italiani.

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Il bisogno insopprimibile di ricchezza di senso e di generatività – ed è ciò che più conta – cresce nell’agire sociale ed economico: le istituzioni non profit attive in Italia (dati a fine 2022) sono 360.061 con 919.431 dipendenti.

In Italia oggi si contano 59.000 cooperative, con un valore aggiunto di 151 miliardi di euro, l’8% del Pil, coinvolgono 12 milioni di soci e quasi 2 milioni di lavoratori e lavoratrici. Ma il sano contagio sta avvenendo anche e soprattutto nel mondo “profit”: i fondi d’investimento impact (quelli che cercano non solo rendimento, ma anche impatto sociale e ambientale) totalizzano circa un trilione di masse gestite. Il primo compito, dunque, è riconoscere i frutti prodotti nella nostra società. E rilanciare.

Uno dei modi per farlo è quello di creare non un partito, ma uno spartito. Non una musica già scritta fino all’ultima nota, ma piuttosto un genere musicale in grado di coinvolgere nella composizione amministratori locali e società civile. La Settimana sociale di Trieste ha dato una forte spinta per la nascita di un soggetto trasversale che si riconosce nei valori del personalismo e nelle radici cristiane e che, facendo rete, può declinare la nuova musica in soluzioni concrete e condivise ai grandi problemi di oggi: sanità, lavoro, fino agli esiti delle due grandi transizioni, ecologica e digitale.

Il progresso sociale e la politica non sono un trono di spade – ovvero contesa di potere e scontro sanguinoso tra leader – ma adesione generativa dal basso a una visione e a un cambiamento che ha la capacità di coinvolgere e affascinare tutti. La trasformazione è del resto già in corso. Attraverso percorsi di partecipazione, cittadinanza attiva, amministrazione partecipata si affina ogni giorno sui nostri territori. Per fare passi avanti nella speranza – il tema di questo anno giubilare – e nel progresso civile, tante volte non bisogna inventare, ma imparare a riconoscere.





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