Il governo è in stop serve battersi per il vero riformismo

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L’Autonomia Differenziata, dopo le picconate della Corte Costituzionale, sta andando allegramente a farsi benedire, con buona pace di Calderoli & Co. Giustamente, secondo me, la Corte ha ritenuto inammissibile il referendum perché l’autonomia, in sé, sarebbe astrattamente possibile, alla luce del titolo V della Costituzione (e se avessimo una classe politica accorta si potrebbe anche intervenire utilmente in maniera bipartisan, per esempio, per istituire macroregioni, ma questo è un discorso che ci porterebbe lontano). Ma essendo stato distrutto il disegno di Legge Calderoli, il problema allo stato non sussiste, ed è stato sventato anche un referendum che poteva essere pericoloso.

Ormai sull’istituto del referendum bisogna fare una seria riflessione. Così com’è, è diventato impraticabile. Il quorum al 50% è irraggiungibile se anche alle elezioni politiche non vota ormai nemmeno la metà del corpo elettorale. Ai referendum già si vota poco. I contrari fanno propaganda di astensione e così sta diventando un esercizio inutile. Oggi non passerebbero nemmeno il divorzio e l’aborto. E un rigetto per mancato raggiungimento del quorum sarebbe stato sfruttato come un rigetto del quesito referendario. Meglio come è andata.

Anche il premierato non sta tanto bene. È facile prevedere che anche di questo non se ne farà niente anche perché la Lega, senza l’Autonomia, si metterà di traverso. Mentre, anche su questo terreno, un’intesa condivisa potrebbe dare risultati utili sul piano istituzionale. Le riforme istituzionali non possono essere fatte in maniera strumentale ad usum del partito al potere. Anche il premierato, pericoloso con la Meloni, potrebbe essere cosa diversa quando il pendolo vichiano della storia riporterà al governo la sinistra. In sostanza, dei due pilastri con i quali la Meloni voleva cambiare la storia e la narrazione (anche lei?) dell’Italia, nessuno dei due pare destinato ad andare a buon fine. E così dopo oltre due anni di legislatura il Governo non ha combinato niente di positivo, anzi, niente di niente. Che, peraltro, è la ricetta migliore per un governo, in Italia, per durare.

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Nel film Chinatown di Roman Polansky il capo della Polizia del Distretto (Chinatown, appunto, a Los Angeles), suggeriva ai suoi agenti di fare il meno possibile. E questo pare suggerire Giorgia Meloni ai suoi ministri, anche per fare meno danni possibili. Andrà in porto, probabilmente, solo la separazione delle carriere.

Ma questo è un braccio di ferro istituzionale tra politica (una parte della politica) e magistratura e, per la verità, cambierebbe poco e sembra interessare poco i cittadini. Della giustizia importano la lunghezza dei processi e l’efficienza del sistema. E su questo Nordio non fa niente e in Italia, la culla del diritto, siamo ai minimi storici. Qualche tempo fa parlavo con un avvocato turco il quale, anche lui, diceva che in Turchia le cose non andavano troppo bene perché, diceva, da noi i processi durano anche 3 o 4 anni. In Turchia… beati loro!

Restano sul tappeto i referendum sociali e quello sulla cittadinanza. Vale anche per questi il discorso sostanziale sull’istituto referendario. Il Quorum è difficilmente raggiungibile soprattutto senza il traino dell’Autonomia Differenziata che qualche mobilitazione, nell’elettorato, poteva suscitarla. Io, per la verità, ritengo che tenere distinti i referendum non sia un danno ma un vantaggio per quelli sul lavoro. Farli insieme avrebbe politicizzato la contesa. La classe operaia, quella che è rimasta, ma comunque i lavoratori interessati ai referendum, purtroppo sono in buona parte schierati a destra. In una tornata elettorale politicizzata dall’Autonomia Differenziata, almeno quelli del nord, sarebbero stati indotti a votare contro. Ora, liberati dal condizionamento politico, possono essere spinti a votare secondo i loro interessi di classe. E potrà così essere portata avanti una grande battaglia che porti la sinistra ad abbandonare una politica finalizzata alla difesa dello status quo. E così nella lotta al precariato, per la tutela della sicurezza sui posti di lavoro (gli infortuni e le morti sono una vergogna nazionale), per un salario dignitoso (non solo salario minimo, ma salari adeguati ai sensi dell’art. 36 della Costituzione), si può aprire una nuova stagione riformista. Un tempo, un inno anarchico cantava «e se il governo non vorrà, RIVOLUZIONE!» (poi continuava con altri versi che preferirei riferirli a voce per non incorrere nel reato di vilipendio di istituzioni civili e religiose). Noi potremmo accontentarci, invece della rivoluzione, di mandarlo a casa, il governo. Il sindacato, la CGIL soprattutto, ha la primogenitura in questa battaglia. Ma è la sinistra che deve farla propria se vuole uscire dall’angolo. The Times They are A-Changin’, i tempi stanno cambiando, e vi è bisogno di un riformismo radicale, ancorato ai principi di un socialismo sempre attuale.



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