Quali saranno le ricadute nel continente africano della decisione della nuova amministrazione statunitense di sospendere gli aiuti all’estero, elargiti in gran parte dall’agenzia per lo sviluppo internazionale Usaid? Dal 7 febbraio i circa diecimila dipendenti dell’agenzia saranno in congedo amministrativo, anche quelli all’estero, che sono i due terzi del totale. Per novanta giorni saranno congelati tutti gli aiuti esteri, fatta eccezione per quelli ritenuti essenziali, in attesa di una valutazione di conformità con gli obiettivi della nuova politica estera statunitense.
Secondo i dati raccolti dal Washington Post, nel 2024 Usaid ha speso 40 dei 68 miliardi di dollari che gli Stati Uniti hanno destinato ai paesi stranieri. Negli ultimi cinque anni l’Africa subsahariana ha sempre ricevuto più di un terzo di questi fondi. Per questo è la regione del mondo che potrebbe essere più danneggiata dalla scure che Elon Musk, il referente di Donald Trump per l’efficienza governativa, minaccia di brandire sull’agenzia.
Nel 2023 tra i venti primi beneficiari degli aiuti statunitensi destinati a sicurezza, sviluppo e crisi umanitarie c’erano dodici paesi africani. Anche se quell’anno una parte enorme di quel budget andava all’Ucraina (17 miliardi di dollari), al quarto posto – dopo Israele, Giordania ed Egitto – veniva l’Etiopia (1,46 miliardi di dollari), seguita da Somalia (1,18 miliardi), Nigeria (1 miliardo), Repubblica Democratica del Congo (990 milioni), Kenya, Mozambico, Sud Sudan, Uganda, Tanzania, Zambia e Sudan.
Quei fondi coprivano diverse necessità. Nel Sudan devastato dalla guerra, racconta il Washington Post, si sono interrotti subito i programmi di distribuzione di generi alimentari gestiti dall’agenzia e sono state chiuse le centinaia di mense comunitarie che provvedevano ai bisogni della popolazione nelle parti del paese dove le grandi organizzazioni umanitarie non riuscivano ad arrivare. Usaid finanziava anche le Emergency response rooms, dei piccoli gruppi di attivisti per la democrazia il cui obiettivo è limitare i danni causati dalla guerra civile. Più di sessanta dei loro volontari sono stati uccisi dall’inizio della guerra due anni fa e l’agenzia statunitense provvedeva anche alla sicurezza di quei ragazzi che portavano cibo e medicine attraverso le linee del fronte.
Anche nella Repubblica Democratica del Congo, le cui province orientali assistono a rinnovate violenze per l’avanzata di un gruppo ribelle sostenuto dal Ruanda, 1,2 milioni di persone rischiano di perdere aiuti essenziali, ha dichiarato un funzionario statunitense all’Associated Press (Ap). Nel paese vivono milioni di sfollati e l’anno scorso un’epidemia di mpox, la malattia un tempo conosciuta come vaiolo delle scimmie, è stata dichiarata un’emergenza sanitaria globale.
I mezzi d’informazione statunitensi fanno altri esempi di come venivano usati quei fondi: in Zimbabwe andavano a organizzazioni che cercavano di proteggere le ragazze dai matrimoni precoci; in Mauritania servivano per i profughi scappati dal Mali per sfuggire ai jihadisti; in Tanzania per contenere la diffusione di un’epidemia di febbre emorragica di Marburg.
Ma la preoccupazione più grande è per la lotta all’aids che Washington portava avanti in tutto il mondo attraverso il programma presidenziale Pepfar, lanciato nel 2004 dall’amministrazione Bush, che si stima abbia salvato circa 25 milioni di vite in tutto il mondo. In un paese come il Sudafrica, che registra il più alto tasso di sieropositivi a livello globale, i fondi del Pepfar contribuiscono al 17 per cento dei finanziamenti per il programma nazionale di lotta all’aids: nel paese più di otto milioni di persone convivono con l’aids e 5,5 milioni ricevono ogni giorno i farmaci antiretrovirali grazie a questo programma.
I tagli annunciati dall’amministrazione Trump sono stati molto criticati, ma hanno anche dei sostenitori pronti a mettere in evidenza come nei circoli della sinistra antimperialista gli aiuti siano considerati un male, un modo per creare dipendenza dai donatori e assoggettare i paesi che li ricevono. Ma la questione è mal posta, fa notare il direttore di Africa is a country Will Shoki nella newsletter settimanale: “Il problema non è la perdita degli aiuti, ma il fatto che l’Africa sia stata messa nella posizione di esserne dipendente. Decenni di programmi di aggiustamento strutturale del Fondo monetario internazionale, di sfruttamento delle risorse africane da parte delle multinazionali occidentali e di politiche commerciali sbilanciate a favore del nord globale hanno fatto in modo che le economie africane siano ancora molto dipendenti dagli aiuti stranieri”.
Shoki cita anche un recente strafalcione di Trump, quando ha dichiarato che gli Stati Uniti sprecano 50 milioni di dollari mandando preservativi ad Hamas a Gaza, quando invece servono a prevenire l’aids nella provincia di Gaza, in Mozambico. “Non è stato un semplice errore burocratico, ma la dimostrazione della noncuranza con cui è gestita la politica estera statunitense soprattutto verso il sud globale”, commenta Shoki. “Quindi il problema non è che l’Africa deve ‘abbandonare’ gli aiuti statunitensi, come se fossero una cattiva abitudine. La vera questione è che gli Stati Uniti non dovrebbero avere il potere di staccare la spina a intere economie dall’oggi al domani”.
Questo testo è tratto dalla newsletter Africana.
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