Trump sanziona l’Aja, Israele al lavoro per svuotare Gaza

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Conto e carta

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È un’offensiva che colpisce su più fronti quella sferrata da Israele e Stati uniti ai più basilari diritti umani e alle istituzioni sorte per tutelarli, pur con tutti i loro limiti. L’attacco combinato passa per l’ordine esecutivo con cui ieri il presidente Donald Trump ha imposto (di nuovo, come nel 2020) sanzioni finanziarie e limitazioni sui visti ai membri della Corte penale internazionale e ai loro familiari, “colpevoli” di aver avviato le indagini sull’alleato israeliano che lo scorso novembre hanno condotto ai mandati d’arresto contro il premier Netanyahu e l’allora ministro della difesa Gallant.

Le sanzioni – che minacciano i sistemi di pagamento, quelli digitali e assicurativi – sono un pericolo serio, aveva spiegato Päivi Kaukoranta, la presidente dell’assemblea dei paesi membri della Corte: possono ostacolare le indagini e «mettere a rischio la sicurezza delle vittime, dei testimoni e degli individui sanzionati».

LA CAMPAGNA denigratoria passa anche per l’uscita di Tel Aviv dal Consiglio dell’Onu per i diritti umani, accusato dal ministro degli esteri Sa’ar di antisemitismo. E passa sopra le vite di due milioni di palestinesi di Gaza, spogliati di qualsiasi diritto sulla propria terra.

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Ieri Trump è tornato sulla proposta sganciata come una bomba nella conferenza stampa di martedì alla Casa bianca, al fianco di Netanyahu. Sul «suo» TruthSocial, è entrato nei dettagli di come si immagina l’assunzione del controllo della Striscia: non serviranno boots on the ground, soldati Usa, perché sarà «Israele a trasferirla agli Stati uniti una volta terminati i combattimenti».

Un piano che tanti osservatori ed esperti hanno definito aberrante e senza senso, ma che – ci spiega Francesca Albanese, relatrice speciale dell’Onu per i Territori palestinesi occupati – «è molto pericoloso perché contiene due crimini internazionali: la violazione della Carta delle Nazioni unite e lo sfollamento forzato punito ai sensi dello Statuto di Roma». «È fondamentale – continua Albanese – che i 191 stati membri, che rischiano di essere travolti da questa megalomania, si coalizzino e si ricordino il significato di un sistema internazionale con delle regole».

Di crimini contro l’umanità, come la pulizia etnica, parlava ieri anche Human Rights Watch, posizioni lontanissime da quelle che rimbalzano nei corridoi dei ministeri israeliani. In un’intervista alla Fox, Netanyahu ha definito il piano Trump «la prima buona idea che ho sentito»: «Cosa c’è di male? Possono andarsene, possono poi ritornare. Ma si deve ricostruire Gaza». Distrutta su suo ordine, sarebbe corretto aggiungere, secondo un piano chiarissimo da 15 mesi: rendere la Striscia un luogo invivibile non serviva a distruggere Hamas o a riportare a casa gli ostaggi, serviva ad aprire la strada allo svuotamento, totale o parziale, dell’enclave palestinese.

Ne sono consapevoli le stesse famiglie degli ostaggi che da due giorni sui media israeliani rilasciano dichiarazioni preoccupate: Trump può seriamente minare il negoziato in corso da lunedì sulla seconda fase della tregua. L’identica paura espressa da diverse fonti governative che si dicono certe dell’impatto negativo delle fantasie trumpiane di pulizia etnica sul dialogo con Hamas: secondo membri anonimi del team negoziale, non è nemmeno detto che la delegazione parta sabato per il Qatar.

E SE MOLTI LEGGONO nell’insensatezza e nell’illegalità della proposta un modo per alzare la posta per portare a casa altri risultati (la Cisgiordania?), Israele non sta con le mani in mano. Ieri il ministro della difesa Katz ha ordinato all’esercito di preparare un piano per «la partenza volontaria» dei palestinesi da Gaza, via mare, via terra o via aria, verso «paesi come Spagna, Irlanda, Norvegia» (non a caso tra gli Stati più attivi al fianco dei palestinesi), «che sono obbligati dalla legge a permettere l’ingresso dei residenti di Gaza sul loro territorio».

Mezzo mondo discute del futuro dei palestinesi, pochi ricordano che sono titolari del diritto ad autodeterminarsi. Da Gaza, da giorni, sui social e nelle interviste con i giornalisti locali, tanti palestinesi mandano a dire a Trump che non se ne andranno mai, nonostante le condizioni di vita in cui l’alleato statunitense, Israele, li ha ridotti.

Hanno freddo e mancano le tende, quelle che ancora resistono sono in condizioni pessime, peggiorate dalla tempesta che ieri si è abbattuta sulla Striscia e che ha trascinato via i poveri rifugi. La protezione civile gazawi accusa Israele di ritardare l’ingresso di equipaggiamento essenziale, come case mobili e macchinari per rimuovere le macerie, fondamentali non solo al recupero dei cadaveri ma anche ad aprire la strada al transito dei camion umanitari.

Si continua anche a morire: ieri Salman Rushdi Salman Abu Ghoula è stato ucciso dai soldati israeliani, che hanno giustificato gli spari dicendo che si era avvicinato troppo alla zona del corridoio Netzarim dichiarata unilateralmente off limits. Il bilancio ufficiale dal 7 ottobre 2023 è pari a 47.583 uccisi, altri 14mila sono dati per dispersi (28 corpi recuperati ieri dalle macerie, 562 dall’inizio della tregua il 19 gennaio).

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