Saccone (Slc Cgil): “noi contro i pirati delle Tlc”

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Il diario del lavoro ha intervistato il segretario generale della Slc Cgil, Riccardo Saccone, in merito allo sciopero del 3 febbraio indetto per contrastare la decisione, di alcune aziende, di disdire il contratto delle Telecomunicazioni per applicare un nuovo contratto sottoscritto lo scorso dicembre.

 Saccone, come è andato lo sciopero?

È andato bene, c’è stata un’adesione massiccia su tutto il perimetro. Naturalmente in qualche azienda siamo andati meglio siamo andati bene dipende anche dal tasso di sindacalizzazione.

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Chiedete l’implementazione di regole per risolvere la crisi del settore dei contact center in outsourcing, quali in particolari rivendicate?

In realtà stiamo parlando di regole che valgono per tutto il Paese perché e qui è in gioco il tema, direi ormai annoso in questo Paese, di una legge sulla rappresentanza. Il vero problema di questa vicenda, che non riguarda solo questo settore naturalmente, è che in nome della libertà di impresa e della libertà di contrattazione, tre persone si mettono intorno a un tavolo: uno fa la parte dell’associazione datoriale, uno del sindacato, l’altro che sa leggere scrivere e butta giù un testo et voilà, hanno fatto un contratto. Poi arriva un quarto che adotta quel contratto. Tutto in barba al fatto che queste associazioni datoriali e sindacali siano effettivamente rappresentative o meno. Così hanno fatto queste imprese, passando dal contratto delle telecomunicazioni a un altro contratto creato su misura.

Ci troviamo di fronte quindi al più classico dei casi di contrattazione pirata. Il fatto curioso è che sono tante le imprese coinvolte e la decisione è stata presa in blocco, coinvolgendo ben 6mila lavoratori. Dopo tanti anni a confrontarsi con il sindacato come è possibile un tale e repentino atteggiamento?  

Per un motivo molto semplice: il settore di customer center è arrivato a una sorta di collo di bottiglia per un insieme di elementi: la transizione digitale, l’intelligenza artificiale, il calo dei volumi e quindi anche la progressiva perdita di valore di alcune attività del customer care, le classiche dinamiche dell’appalto quindi operazioni sui costi da parte dei committenti, gare al massimo ribasso eccetera eccetera. Tutto questo è accelerato e aggravato dal rischio di obsolescenza tecnologica, questo è un pezzo di attività che sta sparendo e che per resistere nel mercato si deve trasformare.

La risposta di queste aziende al cambiamento è stata una sorta di dumping contrattuale?

Le aziende serie provano a porsi il tema della ri-professionalizzazione, delle persone e del lavoro, quindi di acquisire il lavoro che ha maggiore attinenza con la transizione digitale, che ha un valore più alto e di conseguenza viene pagato maggiormente, consentendo anche di gestire una crisi dei lavoratori con più facilità dal punto di vista della remunerazione della commessa. Alcune aziende provano a stare su questo tavolo, altre giocano una partita tutta in difesa.

Una difesa che non vi ha soddisfatto…

Infatti non c’è nessuna accezione positiva. Questo è il Paese, come diceva Umberto Eco, degli apocalittici e integrati: quando si parla di alcuni temi l’apocalittico dice che è finito tutto che non ci sarà più il call center, mentre l’integrato dice che non c’è nessun problema. La persona normale sa che un problema esiste e si affronta. Non è vero che l’attività di call center finisce ma certamente ogni giorno perde valore. Quindi o si alza il valore di quel lavoro o si abbassano i costi. Parliamoci chiaro, per l’80% l’attività di call center è costo del lavoro, quindi questi signori comprimono semplicemente la voce più cospicua. Non si sono posti il tema del futuro voglio solamente per i prossimi due tre anni, alle condizioni date, massimizzare i profitti e basta.

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Tra l’altro è un settore che in passato ha attraversato un periodo di forte crisi.

Infatti fino al 2007 il call center era sinonimo per antonomasia di precarietà, di assenza di diritti. Nel 2007 abbiamo provato a dargli maggiori tutele, un valore e a farla diventare una professione. Queste aziende non vedono in avanti. Se va a scorgere la lista di chi ha aderito al contratto di Assocontact, tranne un paio, sono tutte di piccole dimensioni che vivono di buchi di volume.

La vostra controparte al tavolo è Asstel giusto?

Si.

Tutte queste aziende hanno quindi cambiato la loro rappresentanza datoriale per passare ad Assocontact?

In realtà no, quasi tutte queste aziende sono sempre state iscritte ad Assocontact, che però ha una rappresentanza molto ridotta, è poco più di una bocciofila, non ha mai firmato il contratto delle telecomunicazioni. È sempre stata al lato del tavolo di rinnovo del contratto e poi aderiva. Ci sono stati momenti nei quali si è lavorato di più e meglio Assocontact sebbene non firmatarie del contratto.

Eravate di vedute aperte, nel senso è raro nelle relazioni industriali fare comunque entrare nella stanza della trattativa una delegazione non trattante, anche se si sedevano soltanto al lato del tavolo.

Siccome è un settore molto particolare abbiamo accettato la loro presenza a bordo tavolo, che però serviva anche in un certo qual modo a portare avanti la discussione. Non dobbiamo mai scordarci che il nostro è un contratto di filiera: quando è nato il 90% del portafoglio dei call center in outsourcing erano le telecomunicazioni e c’erano, mi passi il termine, le vittime e i carnefici, cioè quelli che facevano la politica di ribasso. Abbiamo cercato di dare un minimo di regole e provare a gestire questo settore e mettere ordine.

In un mondo di appalti immagino la vostra difficoltà di difendere salari e diritti.

Si guardi, una delle ferite ancora aperte del mondo del lavoro di questo Paese negli ultimi trent’anni è la forte terziarizzazione e la deregolamentazione di questa terziarizzazione del lavoro, che ha fatto sì che in questo Paese ci siano migliaia di persone che a ogni cambio di appalto tremano. Perché i lavoratori sanno che il loro lavoro proseguirà con un altro imprenditore e spesso devono poi rivedere il loro salario, i loro diritti, il loro orario di lavoro. Basta vedere un normale cambio d’appalto di un’impresa di pulizia per le grandi aziende. Noi avevamo fatto la clausola sociale per dare un ordine a questo mondo e anche in virtù del fatto che un contratto di filiera ci ha permesso anche di gestire con i committenti questo importante passaggio. È chiaro che per il committente più c’è disordine meglio è, perché il disordine vuol dire avere la possibilità di comprimere i costi, vuol dire avere la possibilità di spuntare il prezzo migliore.

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Sicuramente regole che hanno tutelato i lavoratori.

È vero ma soprattutto avvantaggiano un ecosistema lavorativo più ordinato, più moderno e cooperativo, che mette al centro la professionalità, la qualità. A molti però non gliene importa niente quindi spesso e volentieri, in anni di crisi, gli appalti sono stati un po’ come dire il pocket money delle aziende. A contrazione dei fatturati prendevano negli appalti denaro fresco. Basta pagare cinque quello che pagavo dieci e sono cinque guadagnati secchi senza fare una nulla.  Questo è quello che è successo e succede ancora.

Ma perché si sono svegliate adesso queste aziende?

Perché hanno capito che a questo giro in questo rinnovo del nostro contratto, scaduto da due anni, abbiamo difficoltà a rinnovarlo perché dovrà rispondere alla fiammata inflattiva del 2023 e anche mi lasci dire alla fiammata inflattiva di parte del 2022, che era sì coperta dal precedente rinnovo ma si era mangiato quel poco che avevamo acquisito. Infatti siamo passati da un’inflazione prevista dell’1,8% ad una inflazione dell’8%. Quindi queste aziende sapevano che questo contratto non poteva essere gestito in nome della moderazione salariale per tenere in piedi la filiera. Sarà un contratto che deve rispondere anzitutto a quello che è successo in quel biennio.

Quindi loro sapevano che siete in dirittura d’arrivo con la trattativa del rinnovo del contratto Asstel e hanno pensato di fare dei passi indietro, magari con l’idea che un domani, finita la fiammata inflattiva, si possa tornare al vostro contratto.

No, perché nel frattempo il tempo passa e quel lavoro va a diminuire. Chi fa la scelta della contrazione dei costi non sta facendo la scelta di cambiare la professione ma di massimizzare quegli anni che gli rimangono per gestire quel tipo di volumi con il massimo dei profitti.

Capisco ma in questo modo non può durare a lungo questa strategia, qual è la loro prospettiva?

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Ma che gli frega, stiamo parlando di aziende che sono nate come funghi, intanto questi due tre anni se la passano alla grande.

Loro si difendono dicendo che il loro è un contratto specifico per un’attività specifica e non c’entra niente con le Telco e il taglio dei costi.

Benissimo, vediamo che cosa c’è in questo loro contratto, leggiamolo. Prendono i minimi del nostro contratto, quelli ante rinnovo, e l’aumentano di 7€ (questo gli serve per non fare armonizzazione), dicendo che entro il triennio di vigenza di questo contratto aumenteranno di ulteriori 43€. Quindi loro si fanno un rinnovo di contratto a 60 euro circa. Se io prendo solo l’IPCA del triennio scaduto nel nostro contratto 2023-24-25 e lo moltiplico per il valore punto secondo le regole costanti vigenti, quindi volendo recuperare solo l’IPCA, la cifra che esce è 200 euro.

I 200 euro servirebbero solo a recuperare l’IPCA?

Solo per l’IPCA. Capisce? E loro parlano di 60 euro. Peraltro il contratto che ancora non abbiamo rinnovato scade il 31 dicembre del 25. Quindi quando lo firmeremo dovremmo già presentare la piattaforma perché c’è un altro triennio dopo. Ma poi andiamo a vedere altri dettagli, perché il costo di un contratto è complessivo. Andiamo a vedere quanto costa togliere i Rol, andiamo a vedere quanto costa diminuire le ferie, quanto costa non portare al 100% la maternità obbligatoria e pagarla all’80%. Dov’è la modernità di tutta questo? Chiedo per un amico.

Emanuele Ghiani



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