Carrara, «Mafia alle cave negli anni 90 i dubbi sulla fine di Gardini»

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Massa-Carrara «Dalla nostra indagine si evince la difficoltà di Raul Gardini ad uscire dal circolo vizioso della mafia. Chi vi entra, poi, non può più fuggire». L’ex maresciallo della Guardia di finanza Piero Franco Angeloni, che tra 1990 e 1992 fu il braccio destro dell’allora sostituto procuratore di Massa Augusto Lama nell’indagine sulle infiltrazioni della mafia corleonese in quegli anni alle cave di Carrara, è sempre stato convinto che i motivi che spinsero al suicidio (se davvero fu uicidio) l’imprenditore ravennate Raul Gardini il 23 luglio 1993 a Milano, nel suo appartamento di Palazzo Belgioioso, fossero ben altri rispetto all’inchiesta Mani pulite ed alle tangenti, con le quali il suo gesto è stato spesso messo in relazione.

Quella mattina Gardini avrebbe dovuto essere interrogato dall’allora pm milanese Antonio Di Pietro in merito alla maxitangente Enimont da 150 miliardi di lire, la «madre di tutte le tangenti», come la definisce ancora oggi l’ex magistrato, ma non arrivò mai in procura, perché si tolse la vita, sparandosi un colpo di pistola alla testa con una Walther Ppk. Questo suicidio, però, presenta ancora troppi punti oscuri.

I figli dell’imprenditore ed i suoi domestici, che quella mattina si trovavano in casa, riferirono di non aver udito alcuno sparo. Le impronte di Gardini, il cui corpo venne ritrovato dal maggiordomo, non erano presenti sulle cartucce, sul biglietto che aveva scritto prima di spararsi e neppure sulla pistola. Diversi oggetti presenti nella stanza in cui avvenne il suicidio, inoltre, erano stati spostati. Idina Ferruzzi, moglie di Gardini, intervistata nel 1994 da Enzo Biagi, sostenne che suo marito «lo avevano suicidato». Intendeva dire che fu ucciso o che venne indotto a togliersi la vita?

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L’inchiesta di Far West

A tornare sulla morte dell’imprenditore è stata la trasmissione “Far West”, condotta da Salvo Sottile su Rai tre, che ha ripercorso anche quanto emerso dall’indagine svolta nella nostra provincia da Lama ed Angeloni, dopo che nel 1987 Gardini aveva comprato con la Calcestruzzi Spa di Ravenna (impresa capofila del gruppo Ferruzzi) la Sam-Imeg, società che controllava il 65% delle cave e della lavorazione del marmo a Carrara. Il giornalista Giovanni Minoli, ospite di Sottile, ha confermato che a suggerire a Gardini di entrare in affari con Cosa nostra sarebbe stato un vecchio socio di suo suocero Serafino Ferruzzi, Lorenzo Panzavolta, detto “Panzer”, comandante partigiano, dirigente delle cooperative rosse di Ravenna e presidente della Calcestruzzi. Panzavolta avrebbe spiegato all’imprenditore ravennate che per questa società c’era la possibilità di prendersi tutti gli appalti pubblici siciliani, alleandosi, però, con i fratelli Antonino e Salvatore Buscemi, legati a Totò Riina, che dal 1982 entrarono nell’azionariato di Calcestruzzi, attraverso una società di Palermo. Oltre che delle cave siciliane, Antonino Buscemi aveva preso il controllo di quelle carraresi, affidandole alla gestione di suo cognato, il geometra Girolamo Cimino, amministratore delegato della Sam-Imeg. La tesi che a Massa-Carrara, già dagli anni ’80, la grande imprenditoria fosse entrata in affari con la mafia è stata rilanciata anche dai servizi di Carmine Gazzani, inviato di Far West, il quale, oltre a riproporre l’intervista ad Angeloni e quella ad un testimone anonimo, che ha confermato la presenza dei corleonesi a Carrara tra 1987 e 1992, ha parlato con Di Pietro, Carlo Sama, cognato e successore di Gardini alla guida del gruppo Ferruzzi, lo scrittore Lucio Trevisan, i giornalisti Giovanni Barbacetto e Carlo Petruzzi.

«Tra Tangentopoli e “Mafiopoli” -ha sostenuto Di Pietro- non c’erano differenze, perché i protagonisti di entrambe le inchieste erano gli stessi».

L’ex pm Di Pietro

L’ex pm, tuttavia, ha anche ribadito che, a suo avviso, quello di Gardini fu un suicidio. «All’epoca -ha confermato Barbacetto- la classe politica italiana si finanziava attraverso le tangenti». Petruzzi, capo ufficio stampa del gruppo Ferruzzi tra 1985 e 1986, ha spiegato che Gardini, ad un certo punto, avrebbe voluto disfarsi della Calcestruzzi. Secondo Sama, autore del libro “La caduta di un impero” (Rizzoli), la rovina della Ferruzzi, che fino ad allora era stato uno dei maggiori gruppi agroalimentari al mondo, iniziò nel 1987, quando Gardini decise di passare all’industria chimica, acquistando la Montedison e cercando poi di unirsi con l’Eni all’interno di Enimont. La parte pubblica aveva promesso sgravi fiscali a Gardini, che per comprare Montedison e creare il secondo gruppo industriale italiano dopo la Fiat, si era esposto con 270 miliardi di lire, provenienti dal patrimonio di famiglia. Questi aiuti, però, non arrivarono mai e l’imprenditore, per uscire da Enimont, dovette pagare la famosa maxitangente da 150 miliardi di lire.

Trevisan, autore del libro “Il delitto Gardini” (Edizioni Colibrì), ha mostrato a Gazzani dei tabulati telefonici da cui si evince che il patron della Ferruzzi, temendo per la propria incolumità, aveva chiesto la protezione di un’agenzia specializzata e progettato anche di espatriare.l

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