«Che semifinale olimpica nel 1984 a Los Angeles»

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Oggi si parla più del figlio Simone, primo abruzzese a giocare in Nba e unico italiano oggi tra i marziani Usa del basket, ma c’è stato un periodo nel quale a dominare le cronache era lui, papà Daniele Fontecchio. Classe 1960, pescarese, è stato il volto dell’atletica leggera abruzzese e uomo di punta degli Azzurri: ha vinto 10 titoli italiani (6 di fila sui 110 ostacoli e 4 consecutivi sui 60 ostacoli con 4 doppiette), partecipato ai Giochi Olimpici di Los Angeles 1984 e conquistato la medaglia d’argento agli Europei Indoor di Madrid 1986, con 7’70, record nazionale, sui 60 ostacoli. Ha iniziato la sua carriera con l’Aterno Pescara sotto la guida di un’icona dell’atletica leggera, il professor Giovanni Cornacchia, e dalle rive dell’Adriatico è diventato un vero e proprio big.

Come si è accostato all’atletica leggera?

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«Un po’ per caso in realtà, frequentavo il Liceo Scientifico, una succursale del Galilei, e mia mamma un giorno andò a parlare con i professori, anche quello di educazione fisica che era Cornacchia. Avevo quasi 15 anni, ero alto e magro e il prof. le propose di farmi provare allo stadio anche perchè non avevamo la palestra a scuola. Iniziò tutto così, un po’ tardi rispetto a oggi che è un’epoca nella quale tutte le discipline hanno un avviamento allo sport sin dalla tenera età. Giocavo a calcio nei campetti di fortuna con gli amici, correvo sull’argine del fiume ma non pensavo a fare sport in una società».

Tra i mille ricordi del prof. Cornacchia, quale custodisce gelosamente nel cuore?

«Ne ho talmente tanti che mi legano a lui che è difficile scegliere, ma uno molto doloroso non potrò mai dimenticarlo. Eravamo ad Atene per un Europeo al coperto, avevamo già disputato le qualificazioni e purtroppo la sera prima della finale ebbe la terribile notizia della scomparsa dell’amatissima figlia. Dovette tornare subito a casa, lo sentii il giorno dopo poco prima della finale e mi dette comunque una carica incredibile. Ho ancora i brividi a ripensarci. Gli chiesi “Mi seguirai in tv?” e lui, chiaramente distrutto dal dolore, mi rispose che non si sarebbe mai perso la gara. Con lui ho avuto un rapporto incredibile. Non è stato solo un mentore sportivo, ma un secondo padre, un fratello maggiore, un amico, un confidente. Mi ha cresciuto, pendevo letteralmente dalle sue labbra perchè è stato una parte fondamentale della mia vita, come crescita umana, e ovviamente della mia carriera».

Tra i tantissimi successi collezionati, qual è quello al quale è più legato?

«Nel cuore non posso che portare il primo titolo italiano, conquistato a Torino nel 1981. In quel periodo andavo veramente forte, a quel successo ne seguirono altri cinque di seguito ma il primo non si dimentica mai. E ricordo con orgoglio anche la semifinale di Coppa Europa a Mosca. All’epoca la formula era diversa, c’erano tre retrocessioni su otto squadre. Era il periodo post Mennea, assai difficile, e la mia gara era fondamentale. Mi classificai secondo, portai tanti punti alla squadra grazie al mio piazzamento e riuscimmo così a salvarci e a fare la successiva edizione due anni dopo».

Nel 1984 ci fu la partecipazione ai Giochi Olimpici…

«Fu un qualcosa di incredibile, un’esperienza di vita e di sport unica. Vivere il Villaggio Olimpico a contatto con tutti i più grandi campioni del mondo di ogni disciplina è stato fantastico. Mi fermai in semifinale, puntavo davvero tantissimo a qualificarmi per la finale ma non ci riuscii per un solo centesimo. Sarebbe stato il coronamento della carriera, un vero sogno. Pagai l’inesperienza, soffrii molto a livello emotivo la gara pur essendo consapevole dei miei mezzi. Ho vissuto le Olimpiadi anche da papà di un protagonista, Simone ha partecipato a Tokyo con l’Italbasket. Ho provato tanto orgoglio, la partecipazione fu un po’ inaspettata ma l’Italia riuscì a battere la Serbia al Preolimpico facendo qualcosa di incredibile. Grazie a lui ho rivissuto dopo tanti anni quell’esperienza del 1984. E in Giappone il mio Simone si è messo davvero in luce, non a caso poi è arrivata per lui la chiamata Nba. La prossima edizione dei Giochi sarà proprio a Los Angeles, speriamo possa nuovamente esserci l’Italia con Simone».

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Simone e Luca, i suoi figli, hanno scelto il basket, sport di mamma Malì Pomilio, e non l’atletica leggera come il papà: come mai?

«Sono dell’opinione che sia lo sport che ci sceglie, non viceversa. Pensate al mio esempio: adoravo il calcio, mai avrei immaginato di finire sulle piste d’atletica. Ed è stato così anche per i miei figli. Luca ha fatto delle gare di atletica, partecipando anche ad una rassegna nazionale under 14 per gli ostacoli. Fondammo a Francavilla il Viva Villa, società che aveva minibasket e minivolley a esempio, ed entrambi hanno iniziato così».

Oggi lei è allenatore e tra le atlete che segue c’è Christine Anelisa Camplone, che a gennaio ha eguagliato il primato regionale assoluto sui 60 ostacoli con 8″82 e stabilito quello Juniores dopo 43 anni: che tipo di coach è Daniele Fontecchio?

«Più che tecnico mi ritengo un educatore ed un istruttore. Cerco di trasmettere la passione per lo sport e quelle esperienze che ho vissuto in prima persona, sperando che un giorno possano averle anche i miei allievi».

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