A un certo punto di “FolleMente”, che è scritto così, con la maiuscola in mezzo (e pure io, che vado di sabato sera a vedere un film intitolato con un gioco di parole, poi è inutile mi lamenti), a un certo punto di “FolleMente” (che si svolge in una serata, neanche fosse una pièce di Yasmina Reza ma scritta a san Lorenzo), a un certo punto di “FolleMente” (che racconta un primo appuntamento), lui se ne va dopo che hanno scopato, poi torna.
Siccome in “FolleMente” (che a seconda di con chi parli è un rifacimento autorizzato di “Inside Out”, o una cosa i cui autori non hanno proprio pensato a “Inside Out”) ci sono i personaggi che stanno nella testa di lei e quelli che stanno nella testa di lui, l’ultima parte è una resa dei conti dei quattro più quattro (senza Nora Orlandi).
Ora, lui è Edoardo Leo (che so chi sia solo perché, come ogni cittadino italiano, mi chiedo come mai faccia sei film l’anno), e poi ci torniamo. Lei è una trentaduenne di belle speranze, Pilar Fogliati. Quando i tratti della personalità di lei chiedono a quelli di lui «perché sei tornato», il cliché maschile risponde «perché sono stato bene». Quando gli chiedono perché allora se ne fosse andato, lui – non avete bisogno d’arrivare in fondo al paragrafo per saperlo – risponde sempre «perché sono stato bene». E le quattro – che sarebbero la personalità d’una trentenne, non d’una bambina di otto anni – trasecolano che la stessa cotta determini sia la fuga sia il ritorno.
Come esistesse qualcuna che questa ovvietà, arrivata in seconda media, non l’abbia già letta cinquecento volte in cinquecento poste del cuore. Solo che io di questa cosa non mi posso lamentare, ho scoperto tra sabato sera e domenica mattina, perché tutti quelli con cui mi lamento mi dicono «ma se scrivi tutti i giorni che i quarant’anni sono i nuovi dodici».
Quindi forse hanno ragione loro: ha ragione Paolo Genovese che ha fatto questo film che se non ci fossero Emanuela Fanelli e Rocco Papaleo non farebbe ridere mai (ma allora era meglio stare a casa a guardare “Dinner club”); hanno ragione tutti quelli che mi dicono che gli esercenti sono in sollucchero perché la commedia romantica che è quasi un fantasy – in cui una trentenne non vede l’ora di mettersi in casa uno che ha vent’anni più di lei, un’ex moglie, una figlia, l’aspetto di Edoardo Leo, ma non la carriera né il reddito di Edoardo Leo – questa commedia qui, dicono, farà i fantastiliardi.
Nella sintesi d’un’amica che voleva vederlo ma il sito del cinema romano in cui sabato c’era una delle anteprime contemporanee le diceva che c’erano duecentocinque persone a cercare di comprare il biglietto prima di lei, «faranno uscita tipo invasione della Polonia, cast a Sanremo, promozione anche nella palazzina tua».
Nella sintesi d’un amico che fa anche lui il cinema, «fare le anteprime di sabato levando incassi agli altri è proprio da stronzi». (“FolleMente”, con una sola proiezione in anteprima sabato in varie città, era il decimo incasso del giorno; io l’ho visto sempre in quel solito cinema in cui nell’89 avevo visto “Palombella rossa”, e non era altrettanto pieno perché quello era un altro secolo e se finivano i posti ti sedevi per terra e a nessuno importava niente delle uscite di sicurezza, però con le capienze di questo secolo il posto che ho preso era l’ultimo disponibile, l’1A. Era sicuramente colpa della prima fila, se non mi faceva ridere).
La bella notizia è che in “FolleMente” c’è almeno un’idea. La brutta notizia è che quell’idea (c’entrano i Queen) arriva dopo più di un’ora (nella sintesi d’un amico che l’aveva già visto, «dura un’ora e mezza, percepito: “Ben Hur”»). La brutta notizia è in realtà un punto a favore della previsione di fantastiliardi d’incasso, ché ciò che arriva verso la fine del film è ciò che il pubblico ricorderà. La non notizia, cioè la conferma che io ho smesso di capire il mondo, è che la gente rideva in punti in cui, giuro, non c’era niente da ridere.
Era perché ormai è così, e infatti tutti noi che di mestiere al pubblico vendiamo cose abbiamo una cartellina sul desktop che si chiama “Il pubblico vuole lammerda e noi gli diamo lammerda”? Era perché, se ridono con Angelo Duro, perché mai non dovrebbero ridere quando una delle personalità maschili risponde a ogni «da quando» con «da quando sono sei mesi che non scopiamo»? Era perché erano venuti determinati a divertirsi, come quelli che spendono cento euro per un biglietto di concerto e poi col cazzo che ammettono d’averli buttati? (Ormai andare a vedere un film in sala è più eroico che spendere cento euro: sabato pioveva pure).
Ho visto “FolleMente” dopo avere letto due interviste al cast e dopo aver sentito presentare i personaggi dagli attori prima della proiezione. Ciononostante, non ho la più pallida idea di quali tratti di personalità fossero quattro su otto. Il romantico e la romantica, l’arrapato e l’arrapata si capiscono (sono svenevoli gli uni, mirano alle mutande gli altri). Gli altri quattro boh. Sì, potrei controllare rileggendo le interviste, ma non si dovrebbe capire guardando il film? (Forse servivano a fare numero, a far dire al pubblico «quello di “Perfetti sconosciuti” ha fatto un altro film corale» e a farlo arrivare in sala già divertito).
Tutti quelli cui ho espresso questa perplessità mi hanno ribadito che farà i fantastiliardi sbuffandomi «ma cosa vuoi che gliene freghi al pubblico se non si capiscono i dettagli», e io sono abbastanza convinta che abbiano ragione. Che al pubblico non fregherà niente se si citano gli hikikomori che vorrei fare un sondaggio per sapere quanti spettatori medi sappiano che significhi, o Carla Lonzi che peggio mi sento, o il mansplaining (dio o chi per lui ci conservi Emanuela Fanelli, che al «che??» risponde: ma niente, uno sport acquatico).
Non è importante come non era importante quando guardavamo “E.R.” su Rai2 e non capivamo il gergo medico. Andranno al cinema perché “FolleMente” (perdo punti di quoziente intellettivo ogni volta che trascrivo il titolo con la maiuscola interna) permetterà loro di fare l’unica cosa che voglia fare il grande pubblico. Genovese, mi diceva un produttore, riesce sempre a beccare quella cosa che vale per tutti, tutte le personalità, tutte le classi sociali, tutte le età.
Lui che va a cena da lei nonostante il derby, rispecchiando perfettamente il dibattito social sulla controprogrammazione di Sanremo al compleanno d’un amico: a cosa dare priorità? Lei che a trent’anni congela gli ovuli. Lui che a cinquanta detesta i compleanni dei bambini ai gonfiabili. Le frasi romantiche che sono così poco brillanti che lo spettatore medio ragioniere del catasto potrebbe averle scritte su Messenger all’igienista dentale che gli piace: «Sembra persa, ma è solo che non vuol essere trovata». E la citazione apocrifa di Calvino, naturalmente.
Vuoi che, su cinque sceneggiatori, non ce ne fosse uno in grado di leggersi le venti paginette sulla leggerezza delle “Lezioni americane” e scoprire che Calvino quella frase non l’ha mai scritta? Ma la gente non la fai rispecchiare con il fact checking, la fai rispecchiare con quel che fa lo specchio: profondità in superficie (lo scriveva Manganelli nell’88 a proposito delle “Lezioni americane”, lo appoggio qui casomai qualche drammaturgo volesse cambiare il frasifattese a un prossimo personaggio di finzione).
E vi dirò, sarà pur vero, come scrivo tutti i giorni pari, che i quaranta sono i nuovi dodici, ma non sono più tanto sicura, come scrivo tutti i giorni dispari, che questo malanno del pubblico che vuole solo specchiarsi sia un guasto recente. Forse, se consideriamo Gustave Flaubert uno dei più strepitosi romanzieri della storia della letteratura, è perché la tipologia massaia frustrata che fantastica sulle corna come inizio d’una vita diversa è assai più diffusa della tipologia architetto postmoderno che fa battute argute.
Pilar Fogliati, il cui personaggio non sembra esattamente un fulmine di guerra, a un certo punto – come fosse Simone Weil oberata dalla propria tendenza a produrre pensiero su tutto – dice tantintènza: «A te non piacerebbe spegnere il cervello?». Mi ricordo esattamente il tizio che mi disse una frase analoga, avrò avuto venticinque anni, lui ne aveva una quarantina ed era l’erede di una famiglia di ricchi, non aveva mai lavorato un giorno in vita sua e non era esattamente un intellettuale. Però mi piaceva, e quindi non gli risi in faccia. È almeno dai tempi di Flaubert che il pubblico non ride in faccia alle sceme che si percepiscono profonde, ma anzi ci si proietta. La rivoluzione non la fa chi la deve fare, e vogliamo che la faccia il pubblico di Genovese?
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