«Almasri mai condannato, il governo aveva il potere di non eseguire l’arresto»

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Per Sabino Cassese, giurista, ex ministro, ex membro della Corte Costituzionale, il governo poteva esercitare «una certa dose di discrezionalità» nell’eseguire o no il mandato di cattura del libico Nijeem Osama Almasri. E la richiesta del tribunale dell’Aia (organismo che Cassese conosce bene, tanto più che suo fratello Antonio ne è stato il primo presidente) poteva non essere eseguita.

Professore parliamo di Libia e del caso Almasri. Sulle decisioni del governo la ragion di Stato deve prevalere su tutto? Anche sui principi del diritto?
«La convenzione di Vienna sui trattati internazionali prevede che una parte non può invocare le disposizioni della propria legislazione interna per giustificare la mancata esecuzione di un trattato (articolo 27). Il ministro della Giustizia ha spiegato in Parlamento che le decisioni della Corte penale internazionale presentavano gravissime anomalie, incertezze e inesattezze, tant’è vero che la Corte stessa si è corretta. Per questo non ha eseguito. Il ministro dell’Interno ha spiegato che deve prevalere la sicurezza e che ha adottato il provvedimento di espulsione, previsto dal testo unico sull’immigrazione, per la sicurezza dei cittadini e per gli interessi del nostro Paese all’estero. Ora si apre il problema relativo all’obbligo di collaborazione dello Stato alle decisioni internazionali e dell’affidabilità dell’Italia, che è rimesso alle iniziative del ministro della Giustizia, che intende chiedere chiarimenti alla Corte penale internazionale sulle decisioni assunte».

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È giusto accettare il ricatto libico? Garantire le forniture di gas e fermare i flussi migratori sono un interesse nazionale superiore al dovere morale di arrestare un uomo accusato di crimini gravissimi? Si può accettare che centinaia di migliaia di persone in Libia vengano private della libertà, e spesso torturate, per impedire che arrivino in Italia? E qual è il limite? C’è una soglia morale e politica oltre la quale non si può andare?
«L’Italia deve rispettare il diritto internazionale e attuare le decisioni della Corte penale internazionale. Va tuttavia riconosciuto che la Corte penale internazionale, per questa procedura, è in una fase di pretrial, ha adottato un provvedimento cautelare provvisorio, un arresto per assicurare una presenza dinanzi alla Corte. Il libico espulso è un accusato, non una persona giudicata. Su questi dati va svolta una ponderazione, nella quale ovviamente lo Stato ha anche una certa dose di discrezionalità».

Trasgredire una richiesta della Corte penale internazionale (organismo nato da un trattato firmato proprio a Roma) è un atto che può rappresentare un precedente grave? È una scelta che l’Italia può fare? Rischiamo di collocarci fuori dal quadro politico europeo?
«Bisogna ricordare che il ministro della Giustizia ha invocato imprecisioni e contraddizioni della Corte penale internazionale e che quindi il bilanciamento va fatto anche nei confronti di una richiesta della Corte penale internazionale che è carente, secondo il governo e come ammesso dalla stessa Corte, che ha richiesto successive precisazioni proprio sull’aspetto più importante, cioè quello relativo alla durata del reato nel caso di un reato continuativo».

La vicenda italiana, e le sanzioni degli Stati Uniti annunciati dall’amministrazione Trump, hanno aperto il dibattito sul ruolo e sull’operato della Corte penale internazionale. Secondo lei è un organismo che ha fallito e che si può anche superare? Oppure al contrario andrebbe potenziato per assegnare alla Cpi funzioni concrete e poteri realmente efficaci?
«Non è un organismo che ha fallito il suo compito, ma un organismo che non si è ancora sufficientemente radicato nel diritto e nelle prassi internazionali».

I magistrati che non hanno convalidato il trattenimento dei migranti in Albania hanno applicato la legge o hanno preso una decisione politica?
«Hanno fatto una cosa diversa, hanno cioè preso una decisione che non riguarda un caso concreto, ma un’intera categoria di persone, con implicazioni sullo stesso principio, decisione che quindi finisce per avere una portata normativa».

Il governo studia l’introduzione del braccialetto elettronico per i richiedenti asilo, come alternativa al trattenimento nei centri di permanenza. È una misura giuridicamente praticabile?
«I richiedenti asilo, proprio perché richiedenti asilo, debbono essere identificabili e non possono rendersi irreperibili; quindi tutti gli strumenti che non costituiscono una limitazione irragionevole delle loro libertà possono essere utilizzati».

In quella stessa proposta si ipotizza che al migrante venga richiesto di rimborsare i costi dell’accoglienza, se dispone di mezzi sufficienti. Che giudizio dà di un provvedimento del genere?
«Mi sembra in principio una proposta giusta, ma credo che sia di quasi impossibile realizzazione».

In parallelo con il conflitto tra governo e tribunale dell’Aja, il conflitto tra esecutivo e magistratura sta vivendo un momento forse senza precedenti. I colpi incrociati tra governo, procura di Roma e servizi segreti portano lo scontro tra poteri dello Stato a un livello di cui ci dobbiamo preoccupare? Dove può portarci? E come se ne esce?
«A noi italiani ha sempre fatto piacere a un certo grado di teatralità della politica. Penso che se tutti ci concentrassimo sulla funzione che dobbiamo svolgere e se tutti prendessimo il necessario distacco dalle vicende quotidiane, se i partiti politici facessero proposte e programmi, invece di battibeccare, e se, infine, cercassimo di rispettare il silenzio, si farebbe qualche passo avanti verso una scena politica più tranquilla e meno litigiosa».

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Alcuni membri laici del Csm hanno chiesto il trasferimento di Francesco Lo Voi per “incompatibilità ambientale-funzionale”. Secondo lei Lo Voi può continuare a guidare la procura di Roma?
«Non ho tutti gli elementi per rispondere a questa domanda. Nonostante abbia numerosi dubbi sui due atti che hanno dato origine a questa richiesta, penso che possa essere applicata anche al capo della procura romana il principio della presunzione di innocenza».

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