Stefano Stefanini, sostituto commissario della polizia stradale di Bologna, condusse l’inchiesta sull’incidente del pilota brasiliano nel Gp di Imola. Ora va in pensione: «Quell’evento che ha segnato la mia vita».
«Quello fu un weekend terrificante. Venerdì ci fu l’incidente di Barichello e sabato quello, anch’esso mortale, di Ratzenberger. Domenica la gara iniziò con il tamponamento fra JJ Lehto e Pedro Lamy e poi vi fu il tragico episodio di Senna. Io stavo lavorando e fui molto colpito da quanto accaduto a Senna anche se lo vissi come un qualsiasi spettatore. Non mi sarei mai aspettato che quanto successo potesse avere delle conseguenze su di me e sulla mia carriera».
Sono passati trenta anni dal terribile incidente che, all’autodromo Enzo e Dino Ferrari di Imola, pose fine alla vita di uno dei più grandi miti della Formula 1, Ayrton Senna. Stefano Stefanini, sostituto commissario coordinatore della polizia stradale di Bologna, condusse l’inchiesta sulla morte del pilota brasiliano. Oggi Stefanini, dopo 42 anni di servizio, è andato in pensione e racconta quegli eventi che segnarono per sempre la sua carriera.
Stefanini per quale motivo prese parte alle indagini?
«In Italia in caso di morte in un incidente c’è l’obbligo di azione penale e in quel primo maggio 1994 era già stata avviata una inchiesta: quella sulla morte di Ratzenberger. Poi, dopo il decesso di Senna, che avvenne alle 18:40 all’ospedale Maggiore, mi telefonò il mio dirigente che mi disse di avere un grosso problema. Riteneva che la professionalità della stradale sarebbe tornata utile e quindi venimmo incaricati di fare i rilievi sulla pista».
Quello fu un momento particolare
«Sembrava di essere su un altro pianeta. Di solito associamo la Formula 1 al rumore, all’adrenalina, al caos dei motori, mentre io ricordo che camminai sulla pista in un’atmosfera stranissima. C’era un silenzio spettrale e ricordo la lanugine dei pioppi, le bandiere al vento e la gente assiepata contro la recinzione esterna. Ma non era una folla rumorosa, erano tutti in silenzio, tristi e riverenti. Per poter eseguire i nostri rilievi dovemmo spostare gli omaggi fatti dai tifosi, mazzi di fiori e bandiere, e nel farlo mi sembrava di violare qualcosa, mi sentivo addosso gli occhi di tutti. Questo fatto rese la situazione ancora più strana e particolare».
Come si svolsero le indagini?
«Iniziarono in maniera normalissima: si era verificato un incidente stradale e la mia sezione fu appunto chiamata ad eseguire i rilievi necessari. Il problema è che sulla pista, dopo quell’episodio, la gara era proseguita e fummo costretti a rilevare tutte le tracce lasciate dalle auto per poterle attribuire a Senna e non a qualche altro pilota. Furono fatti gli accertamenti sulla macchina, sulla pista e sui regolamenti. E ci furono tre commissioni di periti che dovemmo seguire. Tra l’altro, studiammo tutti gli incidenti che negli anni erano avvenuti alla curva del Tamburello. Fu un lavoro enorme. E non bisogna dimenticare che in contemporanea stavamo lavorando anche all’inchiesta sul decesso di Raztenberger».
Ci furono problematiche? Pressioni?
«L’indagine attirò da subito l’attenzione dell’opinione pubblica e dei mass media perché Senna era un personaggio di enorme fama. Eravamo sempre sotto gli occhi della stampa e delle televisioni di tutto il mondo. Ogni giorno fuori dal portone avevo i giornalisti brasiliani che mi chiedevano aggiornamenti e informazioni. Questo mi creò qualche problema perché non ero abituato a lavorare con quella pressione mediatica e, inoltre, una indagine per poter andare avanti deve avere una fase di totale riservatezza. E c’era anche una pressione di una certa opinione pubblica, legata al mondo della Formula 1, che ventilava, minacciava, di togliere la corsa all’Italia dato che si subivano conseguenze di questo tipo in caso di incidente. Erano messaggi sempre molto ventilati, mai pressioni dirette, ma comunque le sentivi e avevano i loro effetti».
Dal Brasile? Fu chiesto di evitare l’autopsia sul corpo del grande pilota?
«Noi che indagavamo non ricevemmo richieste dirette. Ci furono telefonate fra il governo italiano e quello brasiliano ma l’autopsia era necessaria, anzi richiesta dalla legge. E fu eseguita».
E con la Williams? Ci furono resistenze?
«Non posso dire che si trattò di resistenze. La casa inglese, come l’opinione pubblica di quel paese, non comprendeva perché indagare su quel caso. In Inghilterra non esiste l’omicidio colposo e per la Williams era relativamente normale che una macchina di Formula 1, che sostanzialmente è un prototipo, si potesse rompere. Non capivano per quale motivo se qualcuno avesse commesso un errore di costruzione o di realizzazione dovesse rendere conto in Italia. Più che di resistenze si trattò di incomprensioni».
E la questione della camera car? Vi fu consegnata con le immagini che si interrompevano pochi secondi prima dello schianto?
«In realtà all’inizio ci dissero che non c’erano immagini. Quando interrogammo Damon Hill lui ci disse: “ma non avete visto il video dell’incidente?” Scrivemmo alla FOCA (Formula One Constructors Association) chiedendo spiegazioni. Ci risposero che avevamo chiesto le immagini dell’incidente e che su quel video non erano presenti. E in realtà, se vogliamo essere sinceri, potrebbero anche aver ragione perché l’immagine dell’impatto non c’è. Bisogna anche dire, però, che un sinistro si compone di una fase antecedente, una culminante e una susseguente. Capire cosa era avvenuto prima e dopo l’urto per noi era molto importante. Chiedemmo il filmato, ci fu spedito e ci sembrò buono. Fu una circostanza sicuramente strana ma io non posso dire che il video fu tagliato».
E invece la centralina?
«Anche questa è una storia complicata. Subito dopo le morti di Ratzenberger e Senna le due auto furono portate nel parco chiuso, una zona del paddock dove possono entrare solamente i delegati tecnici e il direttore di gara. Patrick Head, direttore tecnico della Williams, chiese a Charlie Whiting, che era il direttore di gara, di poter smontare e prelevare le due centraline per stabilire se ci fosse stato o meno un guasto meccanico. L’operazione fu autorizzata e, di conseguenza, quando le macchine vennero poste sotto sequestro erano prive delle centraline e le due memorie interne, che mantengono i dati anche senza alimentazione, erano andate distrutte nell’urto. Venimmo a sapere, inoltre, che la centralina Williams aveva perso l’alimentazione e i dati. Per quanto riguarda, invece, la centralina motore Magneti Marelli della Renault ci fu inviata vuota, ma con i dati salvati su dei dischetti. Questo perché i dati erano stati scaricati e la centralina, accidentalmente azzerata. Non posso dire che i dati non fossero buoni, mancavano però quelli dell’altra centralina e quella del motore ha molti meno dati aerodinamici».
Però riusciste a comprendere la causa del decesso di Senna
«Come ormai è ben noto l’uniball della sospensione nell’urto e nello spostamento davanti verso indietro, dal basso verso l’alto, si è infilato nel bordo della visiera del pilota e lo ha colpito alla regione temporale destra».
Sulla causa dell’incidente invece? Si parlò tanto del piantone dello sterzo.
«Siamo nel campo delle ipotesi. Quello che posso dire io, che emerse subito dalle testimonianze dei piloti, è che non poteva essere stato un errore di Senna. Secondo loro il brasiliano non sbagliava mai e il Tamburello più che una curva è un rettilineo e serve una rotazione del volante di pochissimi gradi. Senna voleva vincere, era andato alla Williams per quello, ma non si trovava bene con la vettura. Era abituato a guidare con un volante grande, fuori dal cockpit e si era lamentato della cosa. Per soddisfarlo i meccanici della scuderia assottigliarono una parte del cockpit togliendo qualche foglia di fibra di carbonio per poter lasciare più spazio per le mani. Non si capisce quando questa modifica fu effettuata. Chiedemmo il progetto del piantone e non ci fu consegnato dichiarando che era un segreto industriale. In seguito ce lo inviarono, ad analisi dei periti già iniziate e questo ci fece sospettare che le modifiche fossero state fatte all’ultimo minuto, di fretta. Rimaniamo però, ripeto, nel campo delle ipotesi»
Lei fu il custode del casco e della macchina. Cosa provò all’epoca?
«Guardi all’epoca vedevo più di venti incidenti mortali all’anno. Quindi ti abitui, dentro di te crei una forma di cinismo. Certo, vuoi per la pressione, vuoi perché era Senna, è stato impegnativo. Senza considerare che in continuazione tutti ti chiedevano di poter fare delle foto. Cosa che ovviamente è vietata. Alla fine dell’incidente non è rimasto nulla».
Cosa resta di quella inchiesta? E del processo?
«Io penso e spero che il nostro lavoro abbia contribuito a migliorare la sicurezza della Formula 1. E negli anni seguenti, infatti, tanto è stato fatto in questo senso».
Lei fu molto segnato da quella indagine. Anche dal punto di vista professionale
«Fu una esperienza incredibile. E nell’indagine fu fondamentale, lo voglio ricordare, la professionalità del dottor Passarini, il pubblico ministero, con il quale creai una grande sinergia lavorativa. Abbiamo fatto tutto insieme e io sono stato presente in ogni momento, ho visionato ogni singolo atto d’indagine e c’ero a tutte le udienze del processo. Per tre o quattro mesi sono stato al lavoro solo su quella indagine, non ho avuto altri incarichi a causa della mole di lavoro. Professionalmente è stata una grande sfida: dovevo studiare e capire tutti i giorni qualcosa di nuovo e ho imparato moltissime cose sui regolamenti delle corse e sulle auto della Formula 1».
Ora va in pensione. C’è qualche altro episodio che le è rimasto nel cuore?
«Ce ne sono tanti. Ho fatto tante cose, ho lavorato alle visite del Papa e del Presidente della Repubblica, al Giro e al Tour de France. Però mi lasci dire che l’esperienza più toccante di tutte è stata quella del trasporto degli organi per i trapianti con la Lamborghini della Polizia di Bologna. Sapere che nel cofano stai trasportando la vita di una persona e poi arrivare in ospedale e trovare i familiari del ricevente che ti abbracciano e ti ringraziano sono emozioni forti».
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