quando la sinistra odiava i profughi (italiani)

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Proprio sulla scia di quanto avvenuto ieri a Bologna mi piace raccontare questa storia di “accoglienza”, non molto nota avvenuta 78 anni fa alla stazione centrale.

Il treno della vergogna o il treno dei fascisti sono rispettivamente la locuzione popolare e uno dei titoli de L’Unità con cui s’intende il convoglio ferroviario che nel 1947 trasportò da Ancona, chi vi era approdato col quarto convoglio marittimo da Pola. Questo treno trasportò gli esuli italiani che al termine della seconda guerra mondiale furono costretti ad abbandonare i loro paesi, le loro abitazioni e le loro proprietà in Istria, Quarnaro e Dalmazia nel contesto storico generale ricordato come l’esodo giuliano dalmata.

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Si trattò di un episodio nel quale la “solidarietà nazionale” venne molto meno sia per l’ignoranza dei veri motivi che avevano causato l’esodo di un intero popolo ma anche e soprattutto per la strumentalizzazione, di un partito (la vera politica è ben altra cosa).

La domenica del 16 febbraio 1947 da Pola salpò il piroscafo Toscana, messo a disposizione dal governo italiano solo dai primi di febbraio al 20 marzo 1947; carico, come sempre, di esuli italiani con i loro ultimi beni e, come sempre, un tricolore Italiano. La nave era diretta ad Ancona, l’arrivo in Italia fu accompagnato, come anche per tutti gli altri, da sospetto e diffidenza, poiché taluni vedevano i profughi (famiglie intere, con donne, vecchi e bambini) come fascisti in fuga dal “paradiso socialista” del maresciallo Josip Broz Tito. Difatti vennero accolti dall’esercito e dai carabinieri proprio al fine di proteggerli da connazionali, militanti di sinistra, che non mostrarono alcun gesto di solidarietà, anzi. Gli esuli, salpati da Pola 24 ore prima, la sera del 17 febbraio furono un sistemati in carri bestiame, ogni passeggero aveva ricevuto una balla di fieno per sistemarsi nei gelidi vagoni, il convoglio ferroviario fu fatto procedere, per non intralciare il traffico ferroviario ordinario, con “imbarazzante lentezza” verso la metà decisa che era La Spezia. Il treno giunse alla stazione centrale di Bologna solo a mezzogiorno del giorno seguente, martedì 18 febbraio 1947. Qui la Pontificia Opera di Assistenza e la Croce Rossa Italiana avevano preparato dei pasti caldi, soprattutto per bambini e anziani.

Ma, dai microfoni di alcuni ferrovieri, sindacalisti indottrinati CGIL e iscritti al Partito Comunista Italiano (evidentemente passano gli anni ma le cose non cambiano), fu diramato l’avviso che se il treno dei profughi si fosse fermato per ricevere i generi di conforto preparati dalla POA e dalla CRI, sarà indetto uno sciopero che bloccherà la stazione e sarà in grado di paralizzare l’intera rete ferroviaria nazionale. Il treno venne anche preso a sassate da giovani che sventolavano la bandiera rossa con falce e martello, altri lanciarono pomodori e sputarono sui connazionali, mentre altri ancora buttarono il latte, destinato ai bambini, in grave stato di disidratazione dopo due giorni, sulle rotaie, il tutto dopo aver buttato le vettovaglie nella spazzatura.

Per non avere il blocco del più importante snodo ferroviario d’Italia e ulteriori disordini il treno venne fatto ripartire per Parma.

Nella totale disperazione dei passeggeri, da notare che alcuni di questi erano veri ex partigiani comunisti istriani che avevano combattuto i fascisti ma che avevano compreso l’efferatezza del regime di Tito.

Solo a Fidenza, POA e CRI poterono finalmente distribuire il cibo, e gli altri generi di conforto trasportati da Bologna con automezzi dell’esercito e dell’Arma dei carabinieri. La destinazione finale del treno fu La Spezia dove i profughi furono temporaneamente sistemati in una caserma.

Per meglio illustrare lo scenario il clima in cui si svolgeva questo dramma cito due eventi emblematici: il giornalista de L’Unità Tommaso Giglio, diventato un seguito direttore de L’Europeo, quel giorno scrisse ben tre articoli dedicati al treno che trasportava i profughi, di cui uno era intitolato “Chissà dove finirà il treno dei fascisti?”. E ancora Piero Montagnani su L’Unità del 30 novembre 1946 riportava le seguenti parole di Palmiro Togliatti che riporto testualmente:

Ancora si parla di profughi: altre le persone, altri i termini del dramma.
Non riusciremo mai a considerare aventi diritto ad asilo coloro che si sono riversati nelle nostre grandi città.
Non sotto la spinta del nemico incalzante, ma impauriti dall’alito di libertà che precedeva o coincideva con l’avanzata degli eserciti liberatori.
I gerarchi, i briganti neri, i profittatori che hanno trovato rifugio nelle città e vi sperperano le ricchezze rapinate e forniscono reclute alla delinquenza comune, non meritano davvero la nostra solidarietà né hanno diritto a rubarci pane e spazio che sono già così scarsi.
Questi relitti repubblichini, che ingorgano la vita delle città e la offendono con la loro presenza e con l’ostentata opulenza, che non vogliono tornare ai paesi d’origine perché temono d’incontrarsi con le loro vittime, siano affidati alla Polizia che ha il compito di difenderci dai criminali.
Nel novero di questi indesiderabili, debbono essere collocati anche coloro che sfuggono al giusto castigo della giustizia popolare jugoslava e che si presentano qui da noi, in veste di vittime, essi che furono carnefici.
Non possiamo coprire col manto della solidarietà nazionale coloro che hanno vessato e torturato, coloro che con lo incendio e l’assassinio hanno scavato un solco profondo fra due popoli.
Aiutare e proteggere costoro non significa essere solidali, bensì farci complici“.

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Preferisco non commentare questi articoli scritti da famosi giornalisti e direttori, quindi da uomini acculturati rispetto alla media nazionale dell’epoca che denotano solo un profondo odio represso contro gli stessi connazionali italiani solo perché non iscritti al loro partito. Parole non certo di accoglienza, di solidarietà umana e civile verso quei nostri poveri fratelli, offesi e vilipesi da una ideologia sicuramente non meno folle del fascismo.

Nella realtà partirono tutte le classi sociali, dagli operai ai contadini, dai commercianti agli artigiani, dagli impiegati ai dirigenti. Un’intera popolazione lasciò le proprie case e i propri paesi, indipendentemente dal ceto e dalla colorazione politica dei singoli. Per questo è del tutto sbagliata e fuori luogo l’accusa indiscriminata fatta agli esuli di essere fuggiti dall’Istria e da Fiume perché troppo coinvolti con il fascismo. La verità è che un’intera società sparì, abbandonò le sue case, i suoi averi, il lavoro o attività, le proprie abitudini e le tombe dei propri cari.

Da parte dello stato italiano non c’è stato alcun segno, neppure di disapprovazione di questi atteggiamenti vergognosi, non era ancora tempo di “atti dovuti” di magistrati e giudici che difendevano i diritti delle minoranze più deboli ed emarginate. Il governo del democristiano De Gasperi con il suo tacito silenzio, in virtù di non scontentare nessuno, meno che mai il PCI in quel periodo completamente plagiato a ricalcare i poteri forti e violenti delle nazioni oltre cortina, per calcoli diplomatici e convenienze internazionali, si rese complice di questo tragico episodio.

Anche tutti i governi successivi devono assumersi la responsabilità dell’aver negato, o teso ad ignorare, la verità per pregiudiziali ideologiche e cecità politica. La responsabilità di aver rimosso la storia favorendo in questo modo il negazionismo, il riduzionismo, il giustificazionismo, e il contemporaneo occultamento non solo dalle cronache ma, anche da parte di “storici” compiacenti da tutte le pubblicazioni, i saggi e persino dai libri di testo scolastici.

Questa è un’ultima beffa, l’aver corso il rischio che l’intera vicenda delle foibe e dell’esodo fosse “cancellata” dalla memoria: una “congiura del silenzio”, “la fase meno drammatica ma, ancor più amara e demoralizzante dell’oblio”.
Anche di questo non posso tacere!

Qualche storico negazionista o riduzionista ha voluto insinuare che si tratto solo di una ritorsione contro i torti del fascismo. Non è assolutamente così perché tra le vittime italiane di un odio intollerabile (ideologico, etnico, sociale e religioso) vi furono molte persone che nulla avevano a che fare con i fascisti e le loro persecuzioni. Anche in Italia una certa propaganda legata al comunismo internazionale ha dipinto gli esuli come traditori, come nemici del popolo che rifiutavano l’avvento del regime comunista, in definitiva una massa indistinta di fascisti in fuga.

Solo dopo la caduta del muro di Berlino, il più vistoso, ma purtroppo non l’unico simbolo della divisione europea, grazie ad una paziente e coraggiosa opera di ricerca storiografica, non senza vani e inaccettabili tentativi di delegittimazione, si è fatta piena luce sulla tragedia delle foibe e sul successivo esodo, restituendo questa pagina strappata alla storia e all’identità della nazione, questa vita vera, reale accaduta non tantissimo tempo fa e vissuta da almeno trecentomila italiani.

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Come abbiamo visto, esistono ancora, a distanza di 80 anni, piccole sacche di deprecabile, vergognoso quanto misero negazionismo militante. Va lasciato perdere come ha già fatto, fa e farà sempre

Oggi il vero avversario da battere, forse più forte e più insidioso, è quello dell’indifferenza, del disinteresse.

Buona riflessione.

Roberto Kudlicka, 11 febbraio 2025

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