Il rapporto che lega scienza e sapere umanistico è da sempre complesso e oggetto di profonde domande, che interrogano il senso della realtà e “dell’essere nel mondo”. Già Galileo Galilei risolveva tale articolato rapporto secondo una concezione per cui, se da un lato la fede e la morale indicano come si va in cielo, dall’altro, la scienza spiega cos’è il cielo. E proprio tale distinzione tra i concetti di “spiegazione” e “contemplazione“ – a parere del filosofo del linguaggio Wittgenstein – costituisce la principale differenza tra sapere scientifico, che tenta appunto d’indagare le strutture della natura e descriverle nella maniera più oggettiva, e sapere umanistico, etico, religioso e poetico, che, di contro, non indaga il reale, bensì lo contempla con stupore. L’elemento della meraviglia torna dunque ad essere una categoria fondamentale nella riflessione filosofica del XX secolo, che rinfaccia a se stessa un eccesso di razionalismo tale, da trasformare la realtà in un vuoto simulacro. La critica alla filosofia, ridotta a metodo che sorvola il reale invece di toccarlo, diventa così un tema dibattuto trasversalmente. Ciò che è in ballo, nel corso del Novecento, è difatti lo statuto stesso del sapere umanistico, alla luce delle scoperte scientifiche derivanti dalla fisica e delle nuove prospettive che essa inaugura.
Il libro di Adriana Beverini – L’Oltre: Eugenio Montale tra filosofia, fisica e religione (Il ramo e la foglia edizioni, Roma 2025) – si addentra perciò nel vivo del dibattito che indaga il rapporto tra scienza, sapere umanistico e fede, e lo fa a partire da una prospettiva assolutamente originale: al centro del testo sta, difatti, l’azione poetica in quanto sguardo privilegiato sul reale e in grado di unire visibile e invisibile. È in tale modo che l’autrice ripercorre le principali scoperte della fisica contemporanea, a partire dalla teoria quantistica, mettendo in evidenza come la concezione spalancata da tale sapere sia stata profondamente indagata anche in poesia, anzitutto da parte di Eugenio Montale. Questi, nella propria ricerca poetica, non ha mai omesso le questioni di senso, specie quelle connesse alla visione spalancata dalla fisica quantistica, disciplina che mostra come il mondo subatomico risponda a una “logica-altra” rispetto al determinismo, principio che varrebbe quindi solo a un livello secondario.
Beverini insiste giustamente sulla riflessione filosofica che anche la poesia ha fatto sua, a partire dalle questioni inaugurate dalla scienza contemporanea, la quale ci rivela che la percezione è, in fondo, qualcosa di relativo al soggetto e non la struttura stessa del reale. Non a caso, l’autrice apre il proprio libro con un riferimento a Schopenhauer, pensatore che, sulla scia di Kant e dei Veda, riconosce l’esistenza di due livelli ontologici, paralleli eppure antitetici: il velo di Maya, o “rappresentazione”, e la “volontà”, o fondamento ultimo. Questa stessa problematizzazione viene fatta propria da Montale e da altri autori che, al pari suo, s’interrogano sul valore della realtà e, dunque, sul ruolo della poesia. Quest’ultimo punto diviene pertanto centrale nel testo di Beverini, che ha saputo illustrare perfettamente la questione attorno a cui si muove “la ragion d’essere del poetare contemporaneo”, vale a dire il ruolo del linguaggio in versi in relazione alla visione del mondo definita dalla quantistica. Tant’è che, nella misura in cui si scopre che l’orizzonte subatomico risponde ad altre leggi rispetto alla logica classica e si parla di origine dell’universo a partire dal Big Bang, non possiamo non interrogarci sul ruolo che spetta all’uomo e sulla struttura della “verità”.
Nelle pagine del libro vengono perciò analizzate alcune delle principali categorie filosofiche e scientifiche contemporanee: il vuoto, il tempo e la realtà. In relazione a queste ultime, nessuno, al pari di Montale, è stato in grado di “dire”, con linguaggio intuitivo e visionario, la struttura ultima del reale in relazione alla condizione umana. Condizione che si caratterizza per un’ineludibile fragilità, ma anche per la possibilità di ricostruire un ponte con l’invisibile, tanto da restituire senso e armonia a un mondo scomposto in particelle. La poesia -afferma Beverini in riferimento a Montale- è pertanto il linguaggio che più di ogni altro sa congiungere i due livelli che costituiscono quella rete complessa che chiamiamo “realtà”, vale a dire il piano naturale e quello sopra-naturale. Nel suo linguaggio, che è poi sempre “un accennare per approssimazione”, la poesia ricrea l’unità tra umano e divino e lo fa con immagini e intuizioni che, nonostante la loro incompletezza, sanno ricostruire quell’originario sentire che è poi, in fondo, ciò a cui aspirano sia la scienza, che le discipline umanistiche. «Ricomporre il molteplice in unità» -come scrive Beverini- è, perciò, lo scopo ultimo della vera poesia ed è in tale ricomposizione che l’amore e la bellezza prendono vita.
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link