Il viaggio di Chiara Cadoni nel basket femminile tra sogni, lucidità e consapevolezze | Sardegna che cambia

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Quaranta minuti. Nove mesi. Il tempo di una partita e quello di una stagione. Cifre a cui si aggiunge un numero di anni determinato dai più differenti fattori che si tramutano in carriera. Nell’epoca dei numeri che delimitano ogni sorta di esperienza, la vita delle cestiste di alto livello viaggia su un doppio binario. Quello della certezza data dalla passione e quello dell’incertezza dell’avvenire, dove le diverse stazioni in cui si transita a volte mettono a repentaglio le solide fondamenta costruite sull’amore per la palla a spicchi. Come quando ti accorgi che il sistema di cui fai parte non è in grado di darti quelle necessarie tutele che si confondono con la normalità nella vita degli altri.

Chiara Cadoni ha intrapreso il suo viaggio nel basket femminile ormai quindici anni fa. Oristano il punto di partenza, Cagliari, sponda Virtus, il primo approdo dove capire come il basket potesse diventare qualcosa di più che lo sport amato. Nel mezzo, le convocazioni nelle selezioni nazionali giovanili a testimoniare il talento. Poi Bologna, Ancona, La Spezia, Rovigo tra le altre piazze vissute prima di tornare, nell’estate del 2024, alla soglia fatidica dei trent’anni, in casa virtussina, in quell’A2 femminile che la vede oramai come una delle giocatrici isolane più esperte.

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Chiara Cadoni, giocatrice di punta del basket femminile sardo
RITORNO AL PASSATO

«Tornare a casa – racconta Cadoni – è stata un’emozione molto forte. Mi ero ripromessa di rientrare per l’ultima parte della mia carriera, perché per quanto vorrei continuare a giocare non penso di avere dieci anni davanti [ride, ndr]. Qui ho fatto il vero e proprio salto, nel mentre sono cambiate tante cose ma è anche tutto rimasto com’era. L’ambiente e il calore non hanno abbandonato questo posto, durante le prime partite è stato come tornare indietro di quindici anni». Riavvolgere il nastro aiuta a osservare anche quella che è stata una vita da emigrata sportiva. Un lato spesso dato per scontato ma che influenza la quotidianità e il modo di vedere il tempo stesso.

«Quella di un’atleta è una vita molto spesso diversa da come viene descritta. Partiamo dal presupposto che abbiamo una grande fortuna nel poter andare fuori dall’Isola per vivere di una cosa che ci piace e che faremmo comunque. È sicuramente diverso dall’andare fuori per studiare. Le giornate sono però impostate in funzione dell’impegno sportivo: tutto, anche il riposo, ruota intorno allo sport. È una vita corta, non devi pensare a nulla, devi solo giocare».

COESISTENZA

Il rapporto tra le diverse fette della vita di un’atleta è uno di quegli aspetti che spesso viene celato maggiormente dalla patina che si frappone tra quello che si può pubblicamente osservare e quello che è impossibile da vedere. Tra le due fasi si inseriscono quelle aspettative che possono cambiare le percezioni, le pressioni che possono richiedere al corpo e alla mente di fermarsi prima che si rischi di non sopportare quello che un tempo si è amato.

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Virtus Cagliari, società sportiva di basket femminile, foto di Andrea Chiaramida

«Ci sono stati dei momenti in cui ho scelto di non fare la giocatrice al livello più alto possibile, nonostante ce ne fosse la possibilità. Spesso per questo mi chiedo se la mia carriera avrebbe potuto prendere una piega diversa e la risposta è probabilmente sì. Dopo l’esperienza a Bologna, la mia vita era legata al basket già da dieci anni. È stato un momento in cui però contemporaneamente ho sentito come il gioco stesse cominciando a pesarmi. Allora lì ho capito che dovevo fare un passo indietro e così ho riassestato il tutto. È chiaro che a volte penso agli inizi, a quando sognavo guardando la NBA agli orari più improponibili, ma va bene così».

«C’è una fase – prosegue Cadoni – in cui giochi e sei completamente spensierato. Un’altra in cui entri a contatto con la vita da adulta e il gioco e la vita cambiano, ti accorgi che sei tu a scegliere perché sei grande. È stato un passaggio importante, perché a questo segue la necessità di essere sempre lucidi in campo, di evitare i cali di concentrazione, di rispettare orari e impegni. Diventa un lavoro, che però non può durare in eterno. Il fatto che niente resista per sempre mi ha fatto capire che tutto ciò per cui provo un grande amore non potesse diventare un peso. Le mie scelte sono arrivate per rispetto del gioco e del mio equilibrio».

Lavoro e diritti si scoprono parole centrali anche nello sport, soprattutto in quello non professionistico come il basket femminile

L’UNIVERSO DEL BASKET FEMMINILE

Restare in piedi diviene così, nel tempo, ancora più fondamentale. Perché lavoro e diritti si scoprono parole centrali anche nello sport, soprattutto in quello non professionistico come il basket femminile. Un mondo non diverso per funzionamento e tipologia di accordi dal punto di vista temporale da quello maschile, con intese molto spesso di lunghezza stagionale, ma che per garanzie appartiene a un differente universo. «Facciamo una vita simile ai colleghi di Serie A maschile, ma non siamo allo stesso livello», prosegue sempre Chiara Cadoni.

«Al momento i due primi campionati nazionali femminili non sono professionistici, al contrario di quelli maschili. Le tutele, nonostante il lavoro di associazioni come la GIBA [Giocatori Italiani Basket Associati, ndr] sono ridotte e questo fa paura. È vero che le società ti sostengono nel momento in cui devono, ma questa vita si vive di anno in anno, non si ha mai una certezza. Devi stare bene fisicamente, avere un po’ di fortuna per giocare la stagione giusta che ti consenta di avere buone statistiche su cui ti basi per costruire qualcosa negli anni successivi. Ma sono fattori sinonimo di instabilità. Forse anche per questo, ho deciso di tornare a casa».

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Canva
GIOVENTÙ E NECESSITÀ

Casa, in cui lo sguardo si poggia su quelle giovani generazioni che crescono nei campi della Virtus Cagliari e non solo. E in cui si possono notare differenze col passato che fanno ben sperare. «Rispetto ad anni fa c’è maggiore attenzione verso le giovanili. Si cerca di creare un gruppo più ampio, lavorare sul movimento intero anche con la Federazione. Il fatto che ci sia una squadra di basket femminile in Serie A1 come Sassari è una manna dal cielo, ti fa vedere che una realtà di un certo tipo esiste e puoi sognare di arrivarci».

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Aspetti che possono aiutare ad attrarre sempre più ragazze e ragazzi, spesso dipinti come corpi estranei attirati da attività più estemporanee. «Le generazioni sono cambiate, ora si hanno strumenti diversi. Può essere vero che si sta attaccati al telefono, ma questa è una scusa che viene usata spesso per liquidare la questione e arrendersi al primo ostacolo. Bisognerebbe invece cercare di invogliare i più piccoli al gioco. Già poter andare a guardare la pallacanestro di livello porterebbe a un maggior interesse. Poi sarebbe importante mettere a contatto giocatori e giocatrici con le ragazze e i ragazzi più giovani. Togliere una distanza che ti fa vedere l’atleta fatta e finita con un timore che non dovrebbe esistere».

Necessarie sono le giuste condizioni per alimentare i sogni. «In Sardegna ci sono opportunità ridotte dal punto di vista delle strutture. Bisogna sopperire a questa mancanza, anche se rientra in questo il fattore economico, che ci rende diversi da regioni come Veneto o Lombardia, e una minore tradizione di investimenti nel nostro sport. Per questo serve parlare di basket, far sì che si possa andare in un campetto a tirare a canestro liberi, così come si può tirare un calcio a un pallone per strada. Rendere accessibili i campi a tutti e tutte potrebbe aiutare. Magari non arriveranno cento giovani, ma anche solo dieci persone di cui prendersi cura: non sarebbe un brutto punto di partenza per la nostra pallacanestro».



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