L’Europa ha le armi commerciali ma non il grilletto, così Trump può ancora ricattarla se non è unita

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«Non abbiamo il lusso del tempo», avverte il Commissario slovacco Maroš Šefčovič davanti all’aula di Strasburgo in seduta plenaria. Mentre il rappresentante della Commissione per il Commercio e la Sicurezza Economica elenca i numeri impressionanti del commercio transatlantico — 1,5 trilioni di interscambio annuo, quattro miliardi di beni e servizi che attraversano l’Atlantico ogni giorno — la minaccia dei dazi di Trump è già realtà. Da marzo, acciaio e alluminio europei verranno colpiti da tariffe maggiorate del venticinque per cento.

Ma non è ancora tutto perduto: «Se alcuni vogliono chiudere le porte», cerca di rassicurare Šefčovič, «noi ne apriremo di nuove». La vera domanda che tuttavia aleggia nell’aula non è se l’Europa abbia gli strumenti per rispondere — ce li ha: dall’anti-coercizione al controllo degli investimenti esteri — ma se sia abbastanza rapida per usarli prima che sia troppo tardi.

A fare eco al commissario, seppur a distanza, ci pensa la presidente della Commissione Ursula von der Leyen. Da Parigi, dove si trova per discutere della strategia europea sull’intelligenza artificiale — altro dossier cruciale per l’economia del Vecchio Continente — il messaggio è netto: «I dazi ingiustificati contro l’Ue non rimarranno senza risposta», avverte. «Metteremo in atto contromisure ferme e proporzionate per tutelare i nostri interessi economici, proteggendo lavoratori, imprese e consumatori».

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Appare paradossale, tuttavia, che mentre Bruxelles celebra la sua rete di «accordi commerciali con settantasei Paesi nel mondo» e si vanta di una potenza negoziale che copre il «quarantasei per cento del commercio mondiale» — come ricorda nel suo intervento il ministro polacca degli affari europei, Adam Szłapka — il suo principale partner possa ancora metterla all’angolo con una semplice proclamazione presidenziale. È il paradosso dell’Europa commerciale: mai così forte sulla carta, mai così vulnerabile nella pratica.

Era tutto pronto per un nuovo capitolo nelle relazioni commerciali transatlantiche. A dicembre 2023, l’Unione europea aveva fatto il primo passo: sospensione delle misure di ritorsione contro gli Stati Uniti fino al 31 marzo 2025. In pratica, Bruxelles aveva rinunciato a imporre dazi su prodotti americani come il bourbon del Kentucky o le motociclette Harley-Davidson, scelti per colpire stati chiave nell’elezione presidenziale statunitense. Washington aveva risposto positivamente, mantenendo il sistema di quote che permetteva all’acciaio e all’alluminio europei di entrare negli Stati Uniti senza dazi aggiuntivi, almeno fino ai livelli storici di import. Era questa la delicata architettura negoziale che Trump ha fatto crollare con un solo annuncio.

I numeri in gioco sono enormi. Secondo i dati Eurostat, nell’ultimo trimestre del 2024 il commercio Ue-Usa ha toccato quota ventotto miliardi di euro al mese, con una crescita costante che sembrava suggellare il superamento delle tensioni commerciali della prima amministrazione Trump. A rischio ora ci sono cinque milioni di posti di lavoro, equamente distribuiti sulle due sponde dell’Atlantico, legati all’interscambio commerciale. «Volumi di questa portata dovrebbero suggerire prudenza», ammonisce il Commissario, ricordando che il deficit commerciale europeo con gli Stati Uniti è di appena cinquanta miliardi, il tre per cento del totale degli scambi. Un dato che rende difficile giustificare la narrazione americana del «commercio sleale» usata per imporre i dazi. Tant’è.

Quando si parla di difesa commerciale, l’Unione europea non è certo a corto di munizioni. Negli ultimi anni Bruxelles ha infatti sviluppato un vero e proprio arsenale di strumenti per tutelare gli interessi economici del blocco senza cadere nella tentazione del protezionismo. La Strategia di Sicurezza Economica europea, varata nel 2023, ha dotato Bruxelles di strumenti innovativi:

Prendiamo ad esempio il nuovo regolamento anti-coercizione. Grazie a questo meccanismo, se un paese terzo prova a fare indebite pressioni economiche per influenzare le scelte politiche dell’UE o di uno stato membro, l’Unione può rispondere per le rime. Con questa misura l’UE potrebbe imporre a sua volta in tempi rapidi tariffe sui prodotti di pari valore agli USA. Un modo efficace per scoraggiare ritorsioni commerciali e difendere la propria sovranità. Ma non è l’unica freccia nell’arco europeo. Con le maglie più strette sugli investimenti esteri, l’UE può ora passare al setaccio acquisizioni straniere che potrebbero minacciare la sicurezza o mettere le mani su settori strategici come energia, difesa o alta tecnologia.

E che dire dei controlli sulle esportazioni? Anche qui l’Unione ha alzato l’asticella, rafforzando le maglie sui trasferimenti di tecnologie sensibili a paesi terzi che potrebbero farne un uso poco rassicurante. Parliamo di prodotti dal grande potenziale come microchip avanzati, computer quantistici o intelligenza artificiale, che se finissero nelle mani sbagliate potrebbero avere applicazioni militari pericolose. Con le nuove regole, spedire questo genere di “merce” oltre confine richiederà un’autorizzazione specifica e in certi casi potrà essere del tutto vietato, come, ad esempio ha fatto l’Olanda che ha vietato l’export in Cina di macchinari per produrre i chip più avanzati, per timore di utilizzi militari. Insomma, in teoria l’Ue sembra avere tutte le carte in regola per tener testa alle minacce commerciali che arrivano da ogni angolo del globo, Stati Uniti in testa.

«Il problema», sottolinea Adam Szłapka, ministro polacco per gli Affari europei, «non è la mancanza di strumenti ma l’unità nell’usarli». Un monito che riecheggia l’analisi della Strategia di Sicurezza Economica: la vera sfida non è costruire l’arsenale, ma utilizzarlo in modo coordinato e tempestivo. «Non possiamo negoziare per decenni e avere ratifiche che durano anni», ammonisce Šefčovič, toccando un nervo scoperto della macchina decisionale europea. Mentre gli Stati Uniti possono imporre dazi con una semplice proclamazione presidenziale, la risposta europea deve passare attraverso un complesso processo di coordinamento tra Commissione, Consiglio e Stati membri.

La frustrazione traspare dalle parole di diversi parlamentari in aula. «Mentre l’America impone dazi, Bruxelles si impegna in profonde riflessioni», ironizza un’eurodeputata. «Mentre la Cina sostiene le sue industrie, noi sosteniamo un quadro commerciale inclusivo. E mentre gli altri difendono i loro interessi, noi stiamo redigendo direttive sulle importazioni etiche di banane». Il costo della lentezza è quantificabile. Nei soli quattro mesi tra l’annuncio dei dazi e la loro entrata in vigore a marzo, il commercio Ue-Usa supererà i centodieci miliardi di euro. «Ogni giorno di ritardo nella risposta», calcola il Commissario, «espone miliardi di export europeo a rischio tariffario». Un lusso che l’Europa, con 30 milioni di posti di lavoro legati all’export, non può permettersi.

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«L‘unità è la nostra leva più importante», ripete Šefčovič davanti all’emiciclo. Ma il dibattito parlamentare rivela tre fratture profonde che paralizzano la capacità europea di risposta. La prima è ideologica. Da un lato i falchi che chiedono rappresaglie immediate: «Quando un bullo ti colpisce, non gli dai quello che vuole», tuona l’eurodeputata Sophie Van Brabandt. Sul fronte opposto gli «atlantisti» preoccupati di non compromettere l’alleanza: «Dobbiamo restare concentrati nel sostenere una democrazia alleata contro i regimi autocratici», ammonisce il polacco Michał Stieber, riferendosi alla Russia.

La seconda frattura è strategica. Il dilemma è tra chi, come l’eurodeputato Vautmans, chiede di «mantenere le linee di comunicazione aperte» e chi, come la spagnola Garcia Pérez, vede nei dazi «un’opportunità per mostrare che l’Europa è più forte quando è unita». Nel mezzo, la maggioranza dei parlamentari oscilla tra la necessità di rispondere e il timore di una guerra commerciale.

La terza, e forse più insidiosa, è la frattura tra interessi nazionali. Per la Germania, primo esportatore europeo verso gli Stati Uniti, la priorità è evitare l’escalation. Per i paesi del Sud, come sottolinea l’intervento del portoghese Pereira, è il momento di «ripensare le catene del valore» e puntare sulla reindustrializzazione europea. «Se continuiamo a essere divisi», avverte il ministro Szłapka, «non saremo mai visti come un attore credibile». Un monito che suona come una profezia mentre il tempo stringe e marzo si avvicina.

Gli Stati Uniti però non sono il principale importatore europeo, la Cina, infatti, ha raggiunto i cinquanta miliardi a ottobre 2024. L’India è salita a 7,2 miliardi, il Sud-Est asiatico sfiora i sedici miliardi. La diversificazione commerciale europea è in corso da anni: accordi conclusi con Mercosur e Svizzera, modernizzazione dell’intesa con il Messico, negoziati rilanciati con Malaysia, Indonesia, Thailandia e Filippine. Un tessuto di relazioni che copre il quarantasei per cento del commercio mondiale. «Ma non illudiamoci», avverte il commissario, «non possiamo semplicemente sostituire gli Stati Uniti». I cinque trilioni di euro di investimenti incrociati sulle due sponde dell’Atlantico raccontano di un’integrazione economica troppo profonda per essere smantellata. Il vero rischio, come emerge dal dibattito parlamentare, è che l’Europa si ritrovi intrappolata tra un alleato inaffidabile e una Cina sempre più assertiva.

«Il mondo sta cambiando», conclude Adam Szłapka, «e l’Europa deve decidere se guidare il cambiamento o subirlo». La vera sfida, allora, ha una prospettiva più ampia dei soli dazi su acciaio e alluminio imposti da Trump. Secondo il ministro polacco l’Europa deve ripensare una politica commerciale per un’era in cui anche gli alleati possono diventare rivali. I parlamentari lasciano l’aula di Strasburgo con più domande che risposte. Ma una cosa è chiara: l’Europa ha gli strumenti per difendersi. La vera questione è se avrà la volontà politica di usarli prima che sia troppo tardi.



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