Progetto di legge regionale sul suicidio assistito: quali ragioni per opporsi? – di Fabio Fuiano

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Nella giornata di ieri, 11 febbraio, festa della Madonna di Lourdes nonché giornata mondiale del Malato, il Consiglio Regionale della Toscana ha approvato, con 27 voti a favore e 13 contrari, una proposta di legge d’iniziativa popolare depositata dall’associazione Luca Coscioni denominata “Procedure e tempi per l’assistenza sanitaria regionale al suicidio medicalmente assistito”. Così, la Toscana diviene la capofila dell’ennesimo passo volto alla liberalizzazione di un atto intrinsecamente malvagio, in quanto il suicidio medicalmente assistito unisce in sé le due fattispecie morali di eutanasia e suicidio. La prima, a causa della diretta collaborazione del medico nel processo, il quale mette a disposizione del paziente tutti i mezzi necessari per l’esecuzione della propria volontà di morte; il secondo, perché è poi il paziente stesso, con tali mezzi, a procurarsi la morte. Questo evento ci dà l’occasione di riflettere su un tema tanto delicato e gravido di conseguenze non solo per la vita umana, ma anche per l’intero tessuto sociale. Lo faremo grazie alle considerazioni del padre Enrico Zoffoli (1915-1996), teologo e membro dei Passionisti, autore di numerose opere di filosofia, apologetica e teologia. In un suo volume intitolato “Principi di Filosofia” (Edizioni Fonti Vive, Cipi, 1988), il sacerdote ha approfondito i temi del suicidio e dell’eutanasia, nella sezione dedicata all’Etica. Tra i principali beni dell’ordine fisico, afferma il p. Zoffoli, vi sono la vita, la salute, il piacere e i beni di fortuna. Senz’altro, il primo di questi beni è quello della vita temporale, «e perciò primo dei diritti della persona, perché è solo nella e per la vita temporale che la creatura umana comincia ad esistere e può maturare sé stessa fino a disporsi al pieno compimento di sé». Per l’uomo, «il dovere e il diritto di conservare la vita sono indiscutibili: se l’uno è violato dal suicidio, l’altro è soddisfatto con la legittima difesa» (p. 663).

Il suicidio volontario e diretto viene commesso dall’uomo indipendentemente da qualsiasi autorità divina e umana. Non è difficile, sottolinea il teologo, «dimostrare la grave illiceità del suicidio volontario e diretto:

  1. Il suicida nega in sé l’essere, ripudia la vita, infligge un “vulnus” nel tessuto più profondo del reale, commette la più imperdonabile delle ingiustizie in quanto ritiene non-buono l’essere, al punto di rifiutarlo, evadere dal suo dominio. Col suo gesto il suicida precipita nel peggiore degli assurdi: per esso, l’essere arriva a contraddirsi negando sé stesso.
  2. Egli, sopprimendosi, non solo offende sé stesso, ma anche la società di cui è membro, perché ad essa è legato da vincoli di solidarietà la più oggettiva e profonda; per cui, uccidendosi, viene meno a quei doveri di gratitudine, rispetto, dedizione che obbligano dal momento della nascita. Nel procurarsi la morte, in fondo, maledice la vita e quanti gliel’hanno donata, favorita, difesa, eliminando in sé ogni riflesso della loro personalità, ogni traccia della loro opera […].
  3. Il suicida si comporta come se fosse autore e signore della propria vita; come se si fosse scelto e fatto da sé, in modo da disporre della propria esistenza nella più assoluta autonomia. Ma la vita è dono liberalissimo di Dio, al quale ciascuno deve render conto […].
  4. Nel suicidio, del resto, abbiamo il più arbitrario, ingiustificabile e vile dei gesti. Se infatti la vita tende a realizzare il più alto possibile grado di maturità spirituale, ridurne volontariamente la durata significa rinunziarvi, rassegnandosi a restare nella mostruosa condizione di un “aborto” eterno» (pp. 664-665).

Si potrebbe pensare che, quanto sin qui detto, possa applicarsi forse al suicidio di persone sane e non afflitte da sofferenze dovute alla malattia, magari nella fase terminale della propria vita. Seppure, in quest’ultimo caso, la responsabilità delle proprie azioni possa essere attenuata dal grave peso della sofferenza, non si può pensare di essere dispensati dai principi sopra delineati. Né, tantomeno, una regione o uno Stato possono arrogarsi il potere di legittimare ciò che mai potrà essere legittimo per la legge morale naturale.

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Il trait d’union con le considerazioni precedenti è dunque il giudizio morale da dare sull’eutanasia, sia essa negativa (omissione di cure e trattamenti volti ad accorciare la vita del sofferente) o positiva (atti posti appositamente per uccidere il sofferente col fine illusorio di eliminarne le sofferenze). Nel caso del suicidio medicalmente assistito, ci troviamo proprio di fronte ad eutanasia positiva, «o “morte indolore” voluta dallo stesso paziente che agisce di suo arbitrio o autorizza il medico di fiducia (o altri) a procedere ricorrendo appunto a mezzi per sé stessi capaci di uccidere». Padre Zoffoli adduce due principali ragioni della sua innegabile immoralità. Infatti: «1) l’infermo (o chi per lui) dispone di un valore non suo, perché dono di Dio: egli è un suicida, degno di tutto il biasimo per le ragioni sopra esposte. 2) Le sofferenze che affliggono e umiliano l’infermo possono rendere comprensibile il suo gesto solo come atto di debolezza, oggettivamente ingiustificabile. Che poi non sia esercizio di un “diritto” è dimostrato dal fatto che la perdita della vita non può considerarsi un bene, non essendo possibile male fisico peggiore. Molto più che si tratta di un bene non suo, di cui non può disporre come vuole» (p. 666).

Alcune considerazioni sul tema della sofferenza e su quale sia il suo reale senso sono d’obbligo, in una società che, come quella pagana, è permeata da una concezione materialistica e edonistica dell’esistenza. Non è un caso che, infatti, l’eutanasia fosse largamente praticata nel mondo pagano, come attestato da Diogene, Epicuro, Svetonio e Cornelio Nepote, che padre Zoffoli cita nel suo volume (p. 667).

Il dolore, accettato come strumento di purificazione e di espiazione «rende la vita straordinariamente preziosa per sé e per gli altri. Ciò, soprattutto, riflettendo che precisamente l’estremo periodo della vita favorisce la fase di maturazione interiore della persona come nessun altro». Molte persone che hanno affrontato gravi malattie possono attestare la verità di queste parole.

Per di più, «le ultime sofferenze, devono essere anticipate da un’educazione che disponga ad affrontarle con dignità e fortezza. Chi non si addestra al dolore fisico, si chiude in un egoismo che lo fa soccombere vilmente ad ogni prova della vita; perciò, abdica a quel dominio di sé che costituisce il più alto merito della persona, la più fulgida testimonianza del primato dello spirito. Soltanto una “buona-vita” può disporre ad una “buona-morte” dovuta unicamente alla libera accettazione delle leggi di natura, dei piani della Provvidenza».

Infine, conclude il teologo, «la morte può rendersi serena per le cure e l’affetto di familiari ed amici; per una sapiente organizzazione dei servizi sanitari; per la stessa previdenza della natura che maternamente mitiga il dolore fino ad estinguere la sensibilità dell’infermo; e soprattutto per l’abbandono in Dio e la speranza della vita eterna» (p. 667).

Oggi, purtroppo, «è venuto meno ogni scrupolo, soprattutto per quel diffuso edonismo che anima la vita, ritenuta “buona” finché fonte di piacere. Il Cristianesimo si è sempre opposto a tale cultura della morte, che la medicina è nata per combattere, non per accelerarne il trionfo» (p. 668).

Facciamo nostre queste preziose considerazioni, per non piombare in un’oscurità ancor peggiore di quella che pervase quel mondo pagano al quale la civiltà cristiana ci aveva tanto faticosamente strappato. Che la Madonna di Lourdes, patrona degli ammalati, possa intercedere perché questi iniqui disegni non abbiano seguito. 



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