Con le sue recenti mosse, la coppia Trump-Netanyahu ha messo il re di Giordania, Abdullah II, in una situazione da scacco matto. Il monarca giordano è stato ricevuto martedì alla Casa Bianca dal presidente americano, in un faccia a faccia del quale è trapelato poco o nulla, se non il difficile equilibrismo a cui è stato costretto Abdullah. Trump ha detto molto chiaramente cosa vuole da lui (e, in modi diversi, dal presidente egiziano al-Sisi): che smetta di fare i “capricci” (così li vede Trump) e accolga per sempre i palestinesi di Gaza, così da ricostruire la Striscia a mo’ di resort. Se non lo farà, verrà punito con ulteriori tagli agli aiuti economici e militari che sono vitali per il Regno, in una situazione già da allarme rosso dopo il congelamento dei fondi erogati dall’Agenzia Usa per lo sviluppo internazionale. Con una popolazione complessiva di poco più di 11 milioni di abitanti, la Giordania ospita già oltre due milioni di rifugiati palestinesi (la maggior parte dei quali ha ottenuto la cittadinanza giordana) e più di un milione di rifugiati siriani: senza gli aiuti americani, il Regno è una pentola a pressione pronta a esplodere.
Re Abdullah lo sa benissimo, ed è per questo che è stato attento a calibrare ogni singola parola durante e dopo il vertice alla Casa Bianca. Ha evitato di contraddire direttamente Trump durante il loro incontro, alludendo invece a un piano alternativo che presto “sarà rivelato dall’Egitto”. Ha scelto di evitare di parlare troppo di fronte ai media, limitandosi a poche dichiarazioni studiate per non contrariare il leader americano. Alla domanda se la Giordania avrebbe accolto i palestinesi sfollati da Gaza, ha risposto che avrebbe fatto ciò che era “meglio” per il suo Paese. Soltanto più tardi, con un post su X, ha espresso la posizione che la stragrande maggioranza dei suoi sudditi si aspetta da lui: “Ho ribadito la ferma posizione della Giordania contro lo sfollamento dei palestinesi a Gaza e in Cisgiordania. Questa è la posizione araba unificata. Ricostruire Gaza senza sfollare i palestinesi e affrontare la terribile situazione umanitaria dovrebbe essere la priorità per tutti”, ha dichiarato, indicando nella “soluzione dei due Stati” la via per “raggiungere una pace giusta”. In chiusura, un appello quasi disperato a Washington: “Questo richiede la leadership degli Stati Uniti. Il presidente Trump è un uomo di pace. È stato determinante nel garantire la tregua a Gaza. Ci rivolgiamo agli Stati Uniti e a tutti gli attori interessati per garantire che si mantenga”.
Mai come in questo momento il Regno Hashemita è apparso debole e con le mani legate. Le sue leve con Washington sono minime, sebbene una Giordania destabilizzata sia in contrasto con gli interessi americani. Dal punto di vista interno, la questione palestinese non può che accendere gli animi, dato che più della metà della popolazione ha origini palestinesi. Se al piano di Trump per Gaza si aggiunge quello del governo israeliano per la Cisgiordania (in sostanza, l’annessione) si materializza uno scenario che la Giordania ha sempre rifiutato con fermezza: ovvero la sua trasformazione nello Stato che i palestinesi non hanno mai avuto.
L’idea della Giordania come “patria alternativa” o “Watan al-Badil” per i palestinesi è da tempo una linea rossa per il governo giordano. Amman rinunciò alla sua rivendicazione sulla Cisgiordania nel 1988, in parte per chiarire che la Giordania non è la Palestina e non dovrebbe essere considerata un’opzione per il reinsediamento dei palestinesi. La storia è nota: prima e durante la guerra del 1948, che segnò la nascita dello Stato di Israele, circa 700.000 palestinesi, la maggioranza della popolazione prebellica, fuggirono o vennero cacciati dalle loro case, un evento che i palestinesi commemorano come la Nakba (in arabo “catastrofe”). Israele si rifiutò di consentire il loro ritorno perché avrebbe portato a una maggioranza palestinese all’interno dei suoi confini. I rifugiati e i loro discendenti ammontano oggi a circa sei milioni di persone, con grandi comunità a Gaza, dove costituiscono la maggioranza della popolazione, così come in Cisgiordania, Giordania, Libano e Siria. Nella guerra del 1967, quando Israele conquistò la Cisgiordania e la Striscia di Gaza, altri 300.000 palestinesi fuggirono, per lo più in Giordania. Fino al 1994, Amman mantenne uno stato attivo di ostilità verso Israele, partecipando alle guerre del 1948, 1967 e 1973. Ma, dopo che l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina e Israele firmarono gli Accordi di Oslo nel 1993 e il presidente Clinton promise di condonare i debiti della Giordania e fornire sostegno economico e militare, re Hussein accettò di firmare un trattato di pace con Israele. Da allora, il Regno è emerso come un forte partner americano in Medio Oriente, un legame esemplificato dalla firma da parte dei due Paesi di un quarto Memorandum d’intesa nel 2022, in cui gli Stati Uniti hanno accettato di fornire alla Giordania 1,45 miliardi di dollari di assistenza all’anno.
L’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 e le successive guerre lanciate da Israele contro Hamas a Gaza ed Hezbollah in Libano hanno rotto questo fragile equilibrio, portando allo scoperto tutte le vulnerabilità del Regno Hashemita. L’opposizione alle guerre di Israele ha unito l’opinione pubblica giordana, che si sta allontanando dagli Stati Uniti e da Israele attraverso un’ampia partecipazione al boicottaggio dei prodotti americani ed europei e un crescente sostegno al principale partito politico islamista. La rabbia dei giordani nei confronti del governo si è già riflessa nell’esito delle elezioni parlamentari che si sono svolte a settembre, quando il Fronte d’azione islamico (IAF, il più grande partito politico del Paese) ha vinto un numero considerevole di seggi (31 su 138), nonostante gli sforzi del governo per incoraggiare altri partiti a competere. L’IAF e altri gruppi islamisti hanno criticato apertamente la risposta del governo giordano all’assalto di Israele a Gaza. “Quello che sta facendo Trump è mettere a rischio il futuro del Regno di Giordania”, ha affermato al New York Times Khalil Jahshan, direttore esecutivo dell’Arab Center Washington DC, ricordando come “il movimento politico più forte in Giordania non accetti l’idea che la Giordania sia la Palestina”.
La famiglia reale affronta anche minacce alla propria legittimità, date le origini degli Hashemiti nella regione di Hejaz, in quella che oggi è l’Arabia Saudita. Ad aggravare la situazione ci sono altri due elementi: il quadro economico deteriorato e l’emergenza idrica, entrambi aggravati dalla guerra. A giugno 2024, il debito della Giordania era pari al 90 percento del suo prodotto interno lordo. La disoccupazione era al 22 percento, ma al 46 percento tra i giovani. Il turismo e gli investimenti diretti esteri sono stati notevolmente compromessi dalla violenza regionale dopo il 7 ottobre. Le popolazioni che circondano Petra, il Mar Morto e il Wadi Rum dipendono dal turismo e sono state particolarmente colpite. La guerra ha anche messo a dura prova le partnership economiche della Giordania con Israele, come quelle volte ad affrontare la paralizzante mancanza di acqua in Giordania. La Giordania è uno dei Paesi con più carenza d’acqua al mondo, con meno di 100 metri cubi disponibili a persona all’anno, ben al di sotto della soglia di scarsità d’acqua di 500 metri cubi a persona all’anno. Israele prende più acqua dal fiume Giordano di quanto la Giordania e la Cisgiordania messe insieme, nonostante abbia una popolazione significativamente inferiore. I governi di Israele e Giordania avevano pianificato di ratificare un accordo che avrebbe scambiato l’acqua desalinizzata israeliana con l’energia solare giordana, ma è stato abbandonato dopo il 7 ottobre. L’inadeguato approvvigionamento idrico ha danneggiato in particolar modo il settore agricolo nella valle del Giordano. Sebbene non rappresenti una parte significativa del Pil, l’agricoltura rimane un datore di lavoro cruciale in questa regione del Paese. Storicamente, la Giordania poteva contare sulla produzione nazionale di colture chiave, ma ora importa quasi il 90 percento di generi alimentari di base come i cereali.
Come afferma un recente rapporto del Quincy Institute for Responsible Statecraft, “la Giordania è sull’orlo del baratro”. Se una parte significativa dei palestinesi di Gaza e della Cisgiordania dovesse entrare in Giordania, con la forza o di propria volontà per sfuggire a condizioni di vita insostenibili, ciò sarebbe estremamente destabilizzante. Il re dovrebbe o acconsentire alle richieste dei suoi sudditi e rispondere in modo aggressivo a Israele, o cercare di gestire le ricadute politiche del non farlo. Abdullah è più propenso a mantenere il trattato con Israele e chiedere assistenza agli Stati Uniti per provvedere a centinaia di migliaia o addirittura milioni di nuovi rifugiati. Se il re non riuscirà a cavalcare questo delicato equilibrio – conclude il rapporto – lo scenario è quello di un rovesciamento della monarchia. “Se il governo dovesse cadere, molti giordani e palestinesi sfollati probabilmente cercherebbero di attaccare Israele, sia individualmente, come è già accaduto, sia tramite milizie organizzate. Israele lancerebbe senza dubbio una massiccia risposta militare. La violenza e l’instabilità che ne derivano potrebbero rivaleggiare con la crisi dei rifugiati siriani del 2014-15, che si è rivelata così destabilizzante per la politica europea, per non parlare dell’impatto sulle vite degli stessi giordani”.
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