frode per 1,2 miliardi, tre top manager indagati

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Il Corriere della Sera titola: “Milano, l’accusa dei pm contro Amazon: «Frode fiscale di un miliardo e 200 milioni». Indagati tre top manager”. Amazon Italia ha già risposto sostenendo che non esiste alcuna violazione, eppure i fatti raccontati dal quotidiano italiano sono circostanziati dalla Procura di Milano che ha aperto un’indagine contro la persona giuridica Amazon e contro tre persone fisiche, i manager italiani afferenti all’azienda statunitense.

L’accusa è questa: “1 miliardo e 200 milioni di euro di contestata frode fiscale nelle vendite a distanza in Italia nel 2019, 2020 e 2021: somma che peraltro, calcolata dalla Guardia di finanza di Monza in una comunicazione formale consegnata ad Amazon il 23 dicembre alla fine di una verifica fiscale, lievita in concreto a 3 miliardi di euro tra sanzioni e interessi da ripagare al Fisco”. Sul sito della Guardia di Finanza non compare ancora alcuna comunicazione in merito, quantomeno nel momento in cui si scrive.

Il Corriere della Sera spiega che “per quanto paradossale possa sembrare, in queste ore a inquietare i vertici della multinazionale di Jeff Bezos (187 miliardi di dollari di ricavi e 20 miliardi di utile netto nel 2024), non è tanto la dimensione pur mostruosa dei complessivi 3 miliardi di euro in ballo per la «dichiarazione fraudolenta» addebitata in base all’articolo 3 della legge sui reati tributari n.74 del 2000. Ma è piuttosto l’idea — sicuramente innovativa, si vedrà se fondata giuridicamente — alla base dell’inchiesta sviluppata dal pm milanese Elio Ramondini. Perché, anche grazie a una mastodontica analisi compiuta dalla Procura utilizzando la super potenza di calcolo di un elaboratore della «Sogei» (Società generale d’informatica spa del ministero dell’Economia), ritiene di mettere nel mirino l’algoritmo predittivo di Amazon: e in particolare la sua prospettata indifferenza agli obblighi tributari che pendono invece su chi, come Amazon, metta in vendita sul proprio market-place in Italia merce di venditori extraeuropei (in questo caso prevalentemente cinesi), senza però dichiararne l’identità e i relativi dati all’Agenzia delle Entrate ai fini del pagamento del 22% di Iva da parte del venditore extraeuropeo”.

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E in questa singolare azione del Tribunale di Milano risiede un pericolo mostruoso per tutti gli operatori dell’e-commerce. Perché sostenere che un algoritmo “predittivo” possa essere un mezzo per aggirare gli obblighi fiscali e tributari significa, anche, dire che esiste la possibilità che numerose fattispecie di reato si possono realizzare aggirando digitalmente le imposizioni di legge. In particolare, ancora sotto accusa è la gestione dei marketplace: un sistema ampiamente collaudato, soprattutto da aziende non operanti direttamente in Italia, per evitare gli obblighi Iva. Il marketplace è una sorta di zona grigia: esclude Amazon e i gestori dello store dagli obblighi Iva ma non per carenza di legge, semplicemente per artifizio di piattaforma.

Ampliando il discorso, mettere in discussione l’algoritmo di Amazon significa fare tremare le fondamenta del gigante mondiale dell’e-commerce. Scrive il Corriere: “Ciò su cui fa perno l’inchiesta milanese ha dunque l’effetto di minacciare alle fondamenta il modello di business di Amazon, tanto più in prospettiva non solo in Italia ma anche in Europa. E pone per certi versi perfino una questione di geopolitica economica nei rapporti Cina-Stati Uniti-Italia, se fosse esatta la stima accusatoria (basata appunto sulle analisi fatte con il computer «Sogei») che più del 70% del volume di vendite online del colosso americano in Italia corrisponda a merci di venditori cinesi, dimensione tale peraltro da gettare per definizione ai margini del mercato le piccole imprese e partite Iva”.

La posizione di Amazon, sempre secondo il Corriere della Sera, è “intenzionata a difendere la regolarità dei propri standard visto che con uno studio legale tributarista ha sinora valutato di aderire alla contestazione e non accedere a forme di transazioni con il Fisco come quelle in passato scelte da altri colossi del web alle prese con inchieste a Milano”. In più l’azienda “sembra non ritenere praticabile e neanche pensabile assicurare quel tipo di verifiche dei venditori su scala globale, e valorizza a proprio favore una risposta datale in passato dall’Agenzia delle Entrate in un quesito. Addita poi il fatto che nessun altro Paese in Europa abbia sinora sollevato una simile contestazione; e interpreta che non siano considerabili vendite a distanza quelle che, nel momento in cui una merce viene ordinata online da un consumatore, vedano la merce già stoccata nei magazzini sul territorio italiano grazie appunto all’organizzazione logistica modellata dall’algoritmo predittivo delle richieste dei consumatori”.

Non è una difesa poi così immacolata, dato che in Italia abbiamo già avuto dimostrazione che quando gli enti si muovono, lo fanno a ragione e con una visione più oggettiva e diretta. Un caso emblematico è il Garante della privacy che ha chiesto fin dal primo giorno a OpenAI di adeguarsi alle leggi sulla privacy italiane ed europee. E da questo intervento ChatGPT ha introdotto numerosi sistemi di sicurezza per i dati degli utenti, perfettamente allineati alle leggi italiane. Il fatto è che Amazon agisce con un doppio ruolo: non è solo un tramite ma anche un garante e un gestore dei pagamenti e questo la rende parte attiva della transazione, non um ero “tramite passivo”.

Tant’è che il Corriere conclude che la Tesi di Amazon Italia sarà obiettata dagli inquirenti in base al fatto che “Amazon deterrebbe in Italia quelle merci di venditori extra Ue, quasi fosse un unico enorme conto di deposito anticipato. Di certo si prospetta un confronto giudiziario acceso come mai sinora in questo campo: e non a caso, del resto, giacché i 3 miliardi in gioco equivalgono da soli a quasi l’intero ammontare dei soldi recuperati in tutte la trentina di analoghe inchieste della Procura negli ultimi sei anni”.





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