“Il modello pericoloso di chi grida più forte”

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Bullismo, violenze e dipendenza dai social: sono tre ’problematiche’ sociali che purtroppo riguardano i giovani. Ne parliamo con il professor Andrea Fagiolini, ordinario di psichiatria dell’Università, direttore Dipartimento Salute mentale e della Neuropsichiatria infantile dell’AouSenese.

Il bullismo, fenomeno di gruppo o del singolo?

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“Un fenomeno complesso che nasce dall’interazione tra il singolo e il gruppo. A prima vista, può sembrare l’azione di un individuo che si comporta in modo aggressivo verso un altro, ma in realtà il contesto gioca un ruolo fondamentale. Spesso, il bullo cerca approvazione dagli altri, e la sua forza dipende molto da come il gruppo reagisce: chi lo spalleggia, chi ride, chi resta in silenzio senza intervenire. In un certo senso, il bullismo è un fenomeno collettivo, perché anche l’indifferenza contribuisce a rafforzarlo. Allo stesso tempo, non si può ignorare che il comportamento di chi bullizza nasce spesso da insicurezze personali, difficoltà emotive o ambienti familiari problematici. Non tutti i bulli sono ’cattivi’ di natura: alcuni sono ragazzi che a loro volta hanno vissuto esperienze di sopraffazione o trascuratezza e cercano di affermarsi attraverso la prevaricazione sugli altri. Altri, invece, sviluppano un senso di potere nel vedere che il loro comportamento viene accettato o addirittura apprezzato dal gruppo. Quindi, il bullismo non è mai solo un problema di chi lo mette in atto, ma anche dell’ambiente in cui si sviluppa. Se in una scuola, in una squadra sportiva o in un gruppo di amici si crea una cultura di rispetto e responsabilità, il bullismo trova meno terreno fertile per crescere”.

Sempre più giovani protagonisti di violenze: è la società responsabile?

“La società ha una responsabilità enorme, perché i giovani non crescono da soli, ma dentro un sistema fatto di valori, modelli di riferimento e opportunità. Se una società trasmette il messaggio che la sopraffazione è accettabile, che la violenza è un modo per farsi rispettare, o che le regole possono essere infrante senza conseguenze, è naturale che alcuni ragazzi interiorizzino questi schemi e li riproducano. Negli ultimi decenni, sono cambiate tante cose: le famiglie spesso hanno meno tempo per stare insieme, la scuola ha perso parte della sua autorità educativa e il senso di comunità si è affievolito. Molti giovani si trovano a crescere senza punti di riferimento chiari, in un contesto in cui la ricerca dell’attenzione e del riconoscimento sociale sembra contare più di qualsiasi altro valore. Ci sono anche aspetti più sottili che incidono sul comportamento dei ragazzi: frustrazione, paura di essere deboli, difficoltà a gestire le emozioni. Se non si insegna ai giovani a riconoscere e controllare rabbia, delusione o tristezza, è più facile che queste emozioni vengano espresse in modo impulsivo e violento. Detto questo, dare tutta la colpa alla società è riduttivo. La società siamo noi: famiglie, scuole, istituzioni. Se vogliamo cambiare qualcosa, dobbiamo iniziare da ciò che possiamo fare concretamente per educare i ragazzi in modo diverso”.

O i social da cui sono sempre più dipendenti?

“I social network non sono il problema in sé, ma amplificano dinamiche già esistenti. Oggi, l’immagine conta più che mai: per molti ragazzi, il valore personale è misurato in like, follower e visualizzazioni. Questo porta a una ricerca ossessiva di visibilità, che a volte sfocia in comportamenti estremi solo per attirare l’attenzione. Un altro problema è la disinibizione che nasce dietro lo schermo. Dire o fare qualcosa di aggressivo online sembra meno grave rispetto a farlo di persona, perché manca il contatto diretto con la reazione dell’altro. Questo facilita il cyberbullismo, le offese gratuite e la diffusione di contenuti violenti o umilianti. Inoltre, i social creano un effetto di ’rinforzo’: se un video di violenza diventa virale, altri ragazzi potrebbero essere tentati di ripetere lo stesso comportamento per ottenere visibilità. Questo genera una spirale pericolosa, in cui l’attenzione mediatica spinge a comportamenti più estremi. Il problema non è solo che i ragazzi usano i social, ma come li usano e quanto dipendono da essi. Se il mondo reale diventa meno interessante o gratificante del mondo virtuale, allora siamo di fronte a un problema serio. E’ fondamentale educare i giovani all’uso consapevole dei social, insegnando a distinguere tra realtà e finzione e a non basare l’autostima sul numero di like”.

Quali sono i modelli oggi?

“I modelli di riferimento per i ragazzi sono sempre più variegati e, in molti casi, discutibili. Un tempo i punti di riferimento erano genitori, insegnanti, sportivi o artisti di talento. Oggi, con la diffusione dei social, i modelli si sono moltiplicati e spesso chi ha più visibilità non è chi ha più meriti, ma chi sa attirare meglio l’attenzione. Molti giovani guardano a influencer e personaggi pubblici che propongono uno stile di vita basato sull’apparenza, sulla ricchezza ostentata o sulla trasgressione. Questo può creare un’illusione pericolosa: il successo sembra qualcosa di immediato, raggiungibile senza fatica, senza valori e senza competenze. Fortunatamente, ci sono però anche modelli positivi: persone che dimostrano che il talento, l’impegno e il rispetto per gli altri sono ancora valori importanti. Il problema è che questi modelli faticano ad avere lo stesso spazio mediatico di chi grida più forte. Ecco perché è fondamentale aiutare i ragazzi a sviluppare un pensiero critico: insegnare loro a chiedersi chi stanno seguendo, perché e quali valori trasmette quella persona. Non possiamo scegliere i loro modelli al posto loro, ma possiamo aiutarli a distinguere tra chi vale davvero e chi è solo un fenomeno di passaggio”

Paola Tomassoni

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