Requisiti di legittimazione per costituire la rappresentanza sindacale in azienda. Una storia infinita!

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L’art. 19 dello Statuto dei Lavoratori è una delle poche norme legali del diritto sindacale italiano, che ha subito una lunga e tortuosa vicenda, punteggiata da interventi della Corte costituzionale, referendum abrogativi, interventi legislativi e accordi interconfederali; una vicenda che prosegue con una nuova questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Modena. Ci limitiamo a constatare, provocatoriamente, che gli ultimi sviluppi del dibattito – soprattutto giurisprudenziale – sui requisiti di legittimazione alla costituzione della rappresentanza sindacale aziendale conducono ad un esito solo apparentemente paradossale, in realtà prevedibile: la soluzione ottimale starebbe nel riconoscere la titolarità del diritto a costituire la rappresentanza sindacale aziendale a sindacati dotati di rappresentatività qualificata, nonché a quelli che comunque abbiano stipulato accordi collettivi o sindacali con il datore di lavoro. Quello che si prospetta è una riscrittura (a mezzo Consulta) del testo originario dell’art. 19 dello Statuto dei Lavoratori. Cosa accadrà?

L’art. 19 della legge n. 300/1970 è una delle poche norme legali del diritto sindacale italiano: una norma di portata, nel contempo, pratica, perché su di essa poggia l’intera impalcatura dei diritti sindacali in azienda; e concettuale, perché, definendo la “rappresentatività” utile ai fini della titolarità e dell’esercizio dei diritti sindacali in azienda, segna la differenza tra tale nozione e quella di rappresentanza sindacale.

Peraltro, la valenza giuridica della nozione di rappresentatività sindacale non si esaurisce sul piano dei diritti sindacali in azienda, avendo fin dall’inizio realizzato una escalation funzionale, che l’ha condotta sul terreno, dapprima della legittimazione a negoziare i rinvii legali ai contratti collettivi, e infine (con il “testo unico” del 2014) della disciplina pattizia della rappresentanza ai fini della contrattazione collettiva.

Ciò non toglie che il nucleo normativo di riferimento, con il suo dinamismo intrinseco, resti confinato all’art. 19 dello Statuto dei Lavoratori.

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Nel testo originario, l’art. 19 stabiliva che la presenza attiva delle organizzazioni sindacali in azienda si realizzasse attraverso la costituzione, nelle unità produttive di una certa dimensione, di “rappresentanze sindacali aziendali”; e che ciò potesse avvenire solo “nell’ambito delle associazioni sindacali aderenti, alternativamente, o alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale, ovvero ad associazioni, pur prive del requisito della maggiore rappresentatività nazionale e confederale, ma che avessero stipulato contratti collettivi nazionali o provinciali applicati nell’unità produttiva interessata. Era solo l’inizio di una lunga e tortuosa vicenda, punteggiata da interventi della Corte costituzionale, referendum abrogativi, interventi legislativi e accordi interconfederali, che esita nel testo attuale, alla cui stregua le RSA possono essere costituite solo nell’ambito di associazioni sindacali firmatarie di contratti collettivi applicati nell’unità produttiva.

Una vicenda che prosegue, avendo il Tribunale di Modena, con ordinanza 14 ottobre 2024, rimesso alla Corte costituzionale la questione di legittimità dell’art. 19, comma 1, lettera b) della legge n. 300/1970 per contrasto con gli artt. 3 e 39, Cost., nella parte in cui prevede che le RSA possano essere costituite nell’ambito di associazioni sindacali che, pur non firmatarie dei contratti collettivi applicati nell’unità produttiva, abbiano comunque partecipato alla negoziazione relativa agli stessi contratti, negando tale possibilità alle associazioni sindacali “maggiormente o significativamente rappresentative” all’interno della singola unità produttiva.

Per comprendere l’esoterica questione è necessario fare qualche passo indietro.

Il problema nasce nel 1995, quando il testo dell’art. 19 della legge n. 300/1970 viene riformulato all’esito di un improvvido referendum abrogativo, basato sull’equivoco – ancora oggi circolante – secondo cui il criterio della maggiore rappresentatività stabilito dalla “lettera a” fosse presunto e non provato e si risolvesse in un ingiusto privilegio a favore delle “confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale”.

Il criterio selettivo statutario venne per l’effetto confinato alla circostanza che le organizzazioni sindacali fossero “firmatarie di contratti collettivi applicati nell’unità produttiva”.

Così modificato, però, il testo post-referendario dell’art. 19 non conteneva più una norma di promozione della presenza sindacale in azienda, ma una norma di ratifica di una presenza già conquistata attraverso la firma di contratti collettivi applicati in azienda.

Senonché 5 anni prima, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 30/1990, aveva escluso che potesse costituire “espressione di rappresentatività reale” il “potere di accreditamento della controparte imprenditoriale”, o, per dirla in altri termini, il “reciproco riconoscimento” delle parti insito nella stipulazione di contratti collettivi.

Orbene, il referendum abrogativo del 1995 imprime all’articolo 19 una direzione diametralmente opposta a quella consacrata dalla Consulta nel 1990: mentre la sentenza del 1990 aveva escluso la legittimità costituzionale di una maggiore rappresentatività fondata sull’“accreditamento datoriale”, il novellato articolo 19 assumeva come criterio unico di accesso alle prerogative statutarie proprio quello della stipula di contratti collettivi di qualunque livello applicati nell’unità produttiva.

Nella fase successiva la Corte costituzionale adottò una strategia di difesa del testo emendato dell’art. 19, mirando a conciliare il criterio della “stipula” di un “accordo applicato nell’unità produttiva”, con la condanna dell’“accreditamento datoriale”, pronunciata nel 1990 (sentenza n. 244/1996).

Il discrimine tra la stipula di un accordo aziendale e la stipulazione di “contratti collettivi (nazionali, locali o aziendali) applicati nell’unità produttiva”, la Consulta lo rinvenne nella necessità che il contratto “firmato” fosse un accordo a contenuto “normativo, che regoli in modo organico i rapporti di lavoro, almeno per un settore o un istituto importante della loro disciplina”, e che tale contratto sia frutto della effettiva partecipazione del sindacato aspirante alla rappresentatività in azienda; non essendo sufficiente, invece, la stipula di un contratto con contenuto meramente “obbligatorio”, o di un “accordo gestionale”, o comunque l’adesione meramente formale a un contratto “normativo”, senza partecipazione attiva al processo di formazione del contratto.

Ma si trattava di un argomento di incerto fondamento giuridico, nonché inficiato dalla normale e inestricabile commistione, negli accordi collettivi, di parti normative, gestionali e obbligatorie.

La questione deflagrò quando, a seguito della mancata firma da parte della Fiom-Cgil dell’accordo aziendale-nazionale stipulato dal gruppo Fiat nel 2010, si produsse il paradossale effetto della inaccessibilità dei diritti sindacali da parte del sindacato fattualmente maggioritario, ma non firmatario di alcun accordo applicato nell’unità produttiva.

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La Corte costituzionale, investita della questione (sentenza n. 231/2013), dichiarò l’illegittimità costituzionale dell’art. 19, comma 1, lett. b) dello Statuto “… nella parte in cui non prevede che la rappresentanza sindacale aziendale possa essere costituita nell’ambito delle associazioni sindacali che, pur non firmatarie dei contratti collettivi applicati nell’unità produttiva, abbiano comunque partecipato alla negoziazione relativa agli stessi contratti quali rappresentanti dei lavoratori in azienda”. Ciò che rileva, nel ragionamento della Corte, ai fini della selezione dei soggetti abilitati a costituire una RSA, non è il mero dato formale della sottoscrizione del contratto collettivo, bensì la “seria partecipazione alle trattative”, giacché l’organizzazione sindacale resta legittimamente libera, all’esito di queste, di non sottoscrivere l’accordo.

La debolezza dell’assunto lasciava presagire una nuova questione di legittimità costituzionale: e infatti, a distanza di 12 anni dalla sentenza n. 231 del 2013, il Tribunale di Modena torna a censurare l’art. 19 Statuto del Lavoratori, con riferimento al caso di un sindacato autonomo dei lavoratori dei trasporti che, pur non avendo stipulato il CCNL di settore, rivendicava il diritto alla costituzione di una propria RSA in una unità produttiva dove aveva un numero rilevante di iscritti, in alcuni reparti maggioritario. Ad avviso del Tribunale, il criterio legale di rappresentatività rappresentato dalla sottoscrizione dei contratti collettivi di lavoro applicati nell’unità produttiva, si discosta inammissibilmente dalla reale rappresentatività dei sindacati presenti in azienda, dimostrata dai tassi di adesione agli scioperi indetti e dal numero di firme raccolte per l’indizione delle elezioni delle RSU: si dubita, cioè, della legittimità costituzionale dell’art. 19, per contrasto con gli artt. 3 e 39, Cost., nella parte in cui, introducendo un criterio selettivo che prescinde dalla misurazione dell’effettiva rappresentatività dell’organizzazione sindacale, prevede che le rappresentanze sindacali aziendali possano essere costituite nell’ambito di associazioni sindacali che, pur non firmatarie dei contratti collettivi applicati nell’unità produttiva, abbiano comunque partecipato alla negoziazione relativa agli stessi contratti, negando tale possibilità alle associazioni sindacali “maggiormente o significativamente rappresentative” all’interno della singola unità produttiva.

Fare previsioni è difficile.

Ci limitiamo a constatare, provocatoriamente, che gli ultimi sviluppi del dibattito – soprattutto giurisprudenziale – sui requisiti di legittimazione alla costituzione di RSA conducono ad un esito solo apparentemente paradossale, in realtà prevedibile, e cioè che la soluzione ottimale starebbe nel riconoscere la titolarità del diritto a costituire RSA a sindacati dotati di rappresentatività qualificata, nonché a quelli che comunque abbiano stipulato accordi collettivi o sindacali con il datore di lavoro.

E quindi, in sostanza, quel che si prospetta è una riscrittura (a mezzo Consulta: gli esempi anche recenti non mancano) del testo originario dell’art. 19 dello Statuto dei Lavoratori.

Quel che più probabilmente accadrà, sarà una soluzione capace di non delegittimare 30 anni di dibattito politico-sindacale, giurisprudenziale, dottrinale.

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