Peraltro, la valenza giuridica della nozione di rappresentatività sindacale non si esaurisce sul piano dei diritti sindacali in azienda, avendo fin dall’inizio realizzato una escalation funzionale, che l’ha condotta sul terreno, dapprima della legittimazione a negoziare i rinvii legali ai contratti collettivi, e infine (con il “testo unico” del 2014) della disciplina pattizia della rappresentanza ai fini della contrattazione collettiva.
Ciò non toglie che il nucleo normativo di riferimento, con il suo dinamismo intrinseco, resti confinato all’art. 19 dello Statuto dei Lavoratori.
Nel testo originario, l’art. 19 stabiliva che la presenza attiva delle organizzazioni sindacali in azienda si realizzasse attraverso la costituzione, nelle unità produttive di una certa dimensione, di “rappresentanze sindacali aziendali”; e che ciò potesse avvenire solo “nell’ambito delle associazioni sindacali aderenti, alternativamente, o alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale, ovvero ad associazioni, pur prive del requisito della maggiore rappresentatività nazionale e confederale, ma che avessero stipulato contratti collettivi nazionali o provinciali applicati nell’unità produttiva interessata. Era solo l’inizio di una lunga e tortuosa vicenda, punteggiata da interventi della Corte costituzionale, referendum abrogativi, interventi legislativi e accordi interconfederali, che esita nel testo attuale, alla cui stregua le RSA possono essere costituite solo nell’ambito di associazioni sindacali firmatarie di contratti collettivi applicati nell’unità produttiva.
Per comprendere l’esoterica questione è necessario fare qualche passo indietro.
Il criterio selettivo statutario venne per l’effetto confinato alla circostanza che le organizzazioni sindacali fossero “firmatarie di contratti collettivi applicati nell’unità produttiva”.
Così modificato, però, il testo post-referendario dell’art. 19 non conteneva più una norma di promozione della presenza sindacale in azienda, ma una norma di ratifica di una presenza già conquistata attraverso la firma di contratti collettivi applicati in azienda.
Orbene, il referendum abrogativo del 1995 imprime all’articolo 19 una direzione diametralmente opposta a quella consacrata dalla Consulta nel 1990: mentre la sentenza del 1990 aveva escluso la legittimità costituzionale di una maggiore rappresentatività fondata sull’“accreditamento datoriale”, il novellato articolo 19 assumeva come criterio unico di accesso alle prerogative statutarie proprio quello della stipula di contratti collettivi di qualunque livello applicati nell’unità produttiva.
Il discrimine tra la stipula di un accordo aziendale e la stipulazione di “contratti collettivi (nazionali, locali o aziendali) applicati nell’unità produttiva”, la Consulta lo rinvenne nella necessità che il contratto “firmato” fosse un accordo a contenuto “normativo, che regoli in modo organico i rapporti di lavoro, almeno per un settore o un istituto importante della loro disciplina”, e che tale contratto sia frutto della effettiva partecipazione del sindacato aspirante alla rappresentatività in azienda; non essendo sufficiente, invece, la stipula di un contratto con contenuto meramente “obbligatorio”, o di un “accordo gestionale”, o comunque l’adesione meramente formale a un contratto “normativo”, senza partecipazione attiva al processo di formazione del contratto.
Ma si trattava di un argomento di incerto fondamento giuridico, nonché inficiato dalla normale e inestricabile commistione, negli accordi collettivi, di parti normative, gestionali e obbligatorie.
La questione deflagrò quando, a seguito della mancata firma da parte della Fiom-Cgil dell’accordo aziendale-nazionale stipulato dal gruppo Fiat nel 2010, si produsse il paradossale effetto della inaccessibilità dei diritti sindacali da parte del sindacato fattualmente maggioritario, ma non firmatario di alcun accordo applicato nell’unità produttiva.
La Corte costituzionale, investita della questione (sentenza n. 231/2013), dichiarò l’illegittimità costituzionale dell’art. 19, comma 1, lett. b) dello Statuto “… nella parte in cui non prevede che la rappresentanza sindacale aziendale possa essere costituita nell’ambito delle associazioni sindacali che, pur non firmatarie dei contratti collettivi applicati nell’unità produttiva, abbiano comunque partecipato alla negoziazione relativa agli stessi contratti quali rappresentanti dei lavoratori in azienda”. Ciò che rileva, nel ragionamento della Corte, ai fini della selezione dei soggetti abilitati a costituire una RSA, non è il mero dato formale della sottoscrizione del contratto collettivo, bensì la “seria partecipazione alle trattative”, giacché l’organizzazione sindacale resta legittimamente libera, all’esito di queste, di non sottoscrivere l’accordo.
Fare previsioni è difficile.
Ci limitiamo a constatare, provocatoriamente, che gli ultimi sviluppi del dibattito – soprattutto giurisprudenziale – sui requisiti di legittimazione alla costituzione di RSA conducono ad un esito solo apparentemente paradossale, in realtà prevedibile, e cioè che la soluzione ottimale starebbe nel riconoscere la titolarità del diritto a costituire RSA a sindacati dotati di rappresentatività qualificata, nonché a quelli che comunque abbiano stipulato accordi collettivi o sindacali con il datore di lavoro.
Quel che più probabilmente accadrà, sarà una soluzione capace di non delegittimare 30 anni di dibattito politico-sindacale, giurisprudenziale, dottrinale.
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