TECH EUROPEO Pellegrini, Klecha & Co.: «In Europa cresciamo…

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La sfida globale per l’innovazione non è ancora persa, ma il tech europeo deve imprimere un’accelerazione, se vuole rimanere in corsa. La rivoluzione tecnologica che stiamo vivendo richiede di stare al passo e in gioco è la stessa sovranità dei Paesi nello spazio digitale. Il ruolo della finanza in questo processo è tutt’altro che secondario. In primis, perché il rafforzamento del tech europeo passa per una fase di consolidamento in cui fusioni e acquisizioni sono fondamentali. Nel 2024 sono state annunciate oltre 6.600 operazioni di M&A nel tech, equamente distribuite tra Europa e USA, per un controvalore di oltre 408 miliardi di euro, in crescita (+26,6%) rispetto ai 322 miliardi del 2023 (Klecha & Co., Insight Report). Ma a fronte di un numero di operazioni rimasto stabile da entrambi i lati dell’Oceano, a trainare i volumi è la crescita della dimensione delle operazioni statunitensi (+38,5% i volumi), mentre il taglio medio europeo resta più piccolo.

«Sulle dimensioni bisognerà lavorare. Deve diventare la nostra ambizione, di creare leader europei che possano effettivamente consolidare il Mercato. Le condizioni ci sono, bisogna solo trovare il coraggio di andare avanti. In realtà, l’Europa è estremamente ricca di tecnologie, perché ogni Paese ha le sue peculiarità, e quindi ogni contesto tende a generare prodotti calzanti a seconda delle esigenze. Dobbiamo fare il passaggio successivo» dice Fabiola Pellegrini, Managing Partner di Klecha & Co. «Se investissimo di più sarebbe molto meglio. Il tema è che dobbiamo scegliere i nostri cavalli e finanziarli seriamente. Bisogna avere una visione e prendersi dei rischi» aggiunge.

Cosa significa essere una banca d’affari impegnata a “supportare l’ecosistema tecnologico europeo a produrre leader globali”, come si legge nella vostra mission?

«Noi siamo nati nel 2009 proprio per seguire le aziende ad alto potenziale di sviluppo e di crescita, spesso ignorate dalle banche d’affari tradizionali. Siamo partiti dalle soluzioni software per il settore bancario, dal leasing al factoring, al credito al consumo, per poi espanderci ad altri campi. Abbiamo lavorato tantissimo nell’AI già dal 2014, quindi a varie riprese, fondamentalmente. Negli ultimi anni, abbiamo avviato alcuni vertical che ci stanno particolarmente a cuore perché strategici per l’ecosistema, come quello della cybersecurity – in cui abbiamo concluso 15 operazioni negli ultimi 30 mesi – e quello della firma digitale, in cui abbiamo seguito molte transaction. Recentemente, da circa un paio di anni, abbiamo anche aperto la practice edtech».

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Qual è il vostro approccio agli investimenti nel settore tech?

«Stiamo allerta per cercare di prevedere le disruption in arrivo. Poi, a seconda del trend, se riteniamo che effettivamente ci possa essere un’opportunità di sviluppo importante e di conseguenza consolidamento in una determinata area, lo supportiamo in maniera diretta. La chiave è identificare i trend di lungo periodo. Nella cybersecurity abbiamo fatto così, come anche nella firma digitale, nell’edtech e nel settore space, che potrebbe partire presto».

4 delle vostre 5 sedi sono in Europa, l’area in cui operate in prevalenza. In che situazione versa il tech nel continente e quali sono le sue peculiarità?

«L’ecosistema europeo è caratterizzato da molte aziende, tutte comunque – chi più, chi meno – con un difetto di taglia. La necessità di aiutarle a utilizzare i Mercati finanziari per espandersi è stato il trait d’union del nostro sviluppo come banca d’affari. Chiaramente, fossimo rimasti solo a Milano, sarebbe stato tutto molto più semplice. Il problema è anzitutto che la tecnologia non ha molto senso farla localmente, in un solo luogo. In più, l’opportunità che dà l’Europa alle nostre aziende tech è importante e tutte hanno difficoltà a seguire questo percorso e uscire. Per questo noi ci siamo dati la mission di supportare questi progetti europei, dove le aziende tech possano consolidare gli operatori del Mercato e diventare più importanti nel loro Mercato».

Su che fase di sviluppo operate?

«All’inizio erano anche Startup, oggi sul deal flow si fermano circa a un 10%».

Quindi siete partiti con un approccio quasi da Venture Capital?

«Sì, noi abbiamo tutt’ora un range di operazioni totalmente atipico, perché lavoriamo dalle aziende in raccolta fino ai 500 milioni di enterprise value. È particolare, perché di solito le banche d’affari operano solo a partire da una certa soglia. Quello che sta accadendo è anzitutto che ci stanno chiamando per deal size più grandi. Al tempo stesso, nel campo tecnologico, noi parliamo con tutti, e se ci sono delle raccolte da fare, le valutiamo. Poi anche noi abbiamo i nostri limiti. Bisogna capire di volta in volta su cosa ha senso lavorare e su cosa no».

La vostra struttura così peculiare viene dal settore in cui operate, dunque?

«Totalmente. Anche perché, spesso e volentieri, se stai entrando in un nuovo trend, le aziende sono piccole e le raccolte lo sono altrettanto. È stato così, per esempio, nella cybersecurity, ma la visione era quella di poter arrivare a fare deal molto più grandi».

Quali sono i vantaggi di avere una strategia così focalizzata su un solo settore?

«Abbiamo la possibilità di portare la strategia al tavolo. Questo significa che, siccome l’ambito è estremamente verticale e peculiare al nostro business, tutti i clienti ci chiedono supporto per definire il loro business negli anni successivi. Diventa addirittura un tratto distintivo, perché il contributo che dai è estremamente pertinente a un sottosettore che conosci bene. Rispetto a un operatore generalista, i vantaggi sono notevoli. Si va al di là del semplice parlare la lingua dell’imprenditore: si ragiona proprio su come creare ordine per favorire la crescita.

Qual è la ratio di avere una filiale anche a New York, per un player paneuropeo come voi?

«Si tratta del primo ufficio che abbiamo aperto dopo Milano. Lì abbiamo fatto alcune operazioni, ma è soprattutto un’antenna. E adesso la situazione geopolitica ci richiede di tenerla ben accesa».

Anche per aiutare le nostre imprese a sbarcare Oltreoceano?

«Potenzialmente sì, ma dove noi siamo molto forti è in Europa. Qui abbiamo investito tanto e il nostro lavoro è proprio di operatori economici che affiancano le imprese per farle crescere e competere a livello internazionale supportando così anche l’ecosistema, per avere un tech europeo che se la possa giocare, in un certo senso.  Eppure, quando abbiamo iniziato a lavorare, tutti volevano raccogliere soldi per andare negli Stati Uniti. Non si vedeva l’opportunità di sfruttare un Mercato europeo in fase di definizione e sviluppo, anche dal lato della domanda, che comunque era più semplice da raggiungere. Perché è vero che abbiamo tante lingue, una serie di regolamentazioni, culture e quant’altro, ma anche andare negli USA non è banale. La quantità di denaro che una strategia americana richiede è esorbitante. Però questa dinamica poneva delle domande e le pone tutt’ora».

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Quando si parla di Big Tech, si tratta soprattutto di compagnie americane. A cosa è dovuto il difetto di taglia dei player europei dal vostro punto di vista?

«Quello che l’Europa ha è soprattutto la sua eredità storica, che la rende più lenta. Allo stesso tempo, si sono creati una serie di quadri normativi che hanno l’obiettivo di migliorare la vita dei cittadini europei, e questo ha generato un mondo tech molto più regolamentato che in America. Il tema è che il nostro tech è in un certo senso figlio del continente e dei suoi percorsi. Inoltre, noi europei siamo a volte timidi a prendere decisioni più ardite sul tema degli investimenti. Una cosa che l’America dimostra da sempre di essere pronta a fare, senza porsi limiti. Insomma, c’è anche un tema culturale: dobbiamo continuare a investire, a innovare. Dobbiamo accettare che questa avversione al rischio può rallentarci. È vero, probabilmente sbaglieremo meno, però a seconda delle dinamiche globali del momento la cosa può metterci più o meno in difficoltà. Detto questo, noi crediamo che l’ecosistema europeo sia discretamente sano, con un approccio agli investimenti ancora troppo cauto, ma con un atteggiamento prudente nei confronti dell’impatto della tecnologia sulle vite dei cittadini».

L’approccio alla regolamentazione ha un ruolo forte, dunque, nel determinare questo sottodimensionamento delle aziende europee?

«Sì, però è anche un’opportunità. Perché se non avessimo fatto niente, noi oggi avremmo solo le aziende tech americane. La nostra complicazione li ha lievemente rallentati. Quando è arrivato il GDPR c’è stata comunque una frenata, perché loro non avevano sistemi GDPR-native e dover ristrutturare tutto ha in parte rallentato la penetrazione in questi settori. È anche grazie a questo che oggi abbiamo, per esempio in ambito cybersecurity, un sistema di operatori europei che ha avuto il tempo di svilupparsi».

È già tempo per i nostri operatori cercare una penetrazione in altri Mercati, o bisogna ancora migliorare in casa per poter arrivare a quella fase?

«Da un punto di vista razionale, e non politico, dobbiamo consolidarci e diventare più grandi, per poter affrontare il nostro stesso Mercato in maniera più forte. Poi gestiremo le altre aree. Ma se noi non diamo risposte europee decise a certi bisogni, qualcun altro lo farà per noi. E se sul B2C diverse battaglie sono state perse, sul B2B stiamo combattendo perché non avvenga lo stesso. Questo tentativo di regolamentazione è nato proprio per dare il tempo alle aziende europee di strutturarsi con soluzioni che rispettassero il nostro mindset».

Dal vostro sguardo come operatore specializzato, vi sembra che questo consolidamento sia effettivamente in corso nel Mercato?

«Assolutamente sì, lo stiamo vedendo. Anche i dati del 2024 sono comunque di consolidamento. Via via che i settori maturano, stiamo vedendo operatori europei che crescono e possono avere un ruolo di magnete per gli altri. In un certo senso è anche la nostra mission: fare in modo che i nostri operatori possano lavorare insieme. È meno facile di quello che sembri: i percorsi di acquisizione internazionale sono complessi, anche a livello europeo. E oggettivamente le sinergie che riesci a produrre nell’immediato non sempre sono grandissime. Si tratta spesso di creare massa per un’offerta strutturata che solo in seguito porta ritorni, una volta raggiunta la dimensione necessaria».

Se dovesse immaginare una Big tech europea o perfino italiana, da che sottosettore potrebbe venire?

«Il regtech – l’integrazione sinergica tra regolamentazione e tecnologia – è sicuramente un settore che ci darà soddisfazione. Ci sono tante operazioni in questo momento sul Mercato, è un ambito su cui stiamo molto lavorando anche come Klecha & Co. e dove esprimeremo senza dubbio una leadership europea».

E quanto alla cybersecurity?

«Anche, è sicuramente un altro ambito in cui siamo forti, almeno in casa nostra, però una competizione americana c’è. Ce la giochiamo, ma bisogna affrontare alcuni temi fondamentali: quello della sovranità digitale su tutti. Questo ci riporta di nuovo a scelte economiche e politiche che l’Unione Europea deve fare congiuntamente. In altre parole, è inutile che un Paese cerchi di tutelarsi se gli altri lasciano la porta completamente aperta. È una scelta di campo che bisogna fare. Però sicuramente le soluzioni cybersecurity native di un certo tipo di ambiente e che vanno a proteggere la sovranità digitale europea sono estremamente promettenti».

Nel campo dell’AI, invece, stiamo solo subendo la transizione o i nostri attori hanno le carte in tavola per competere?

«Bella domanda: è la sfida dei prossimi 18 mesi, se riusciremo a usare le nostre tecnologie AI oppure dovremo adeguarci a prodotti di altri».

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È un tema regolamentare o di Mercato?

«Riguarda l’adoption: OpenAI è molto semplice da adottare. In più, il fatto di associarsi a Microsoft è stato un fattore potentissimo nell’accelerare la diffusione in Europa».

Qual è la via da percorrere, a livello di investimenti, per portare avanti l’innovazione in questo campo?

«Bisogna continuare a spingere su soluzioni AI orizzontali che possano essere verticalizzate. In altre parole, partire da algoritmi generici e allenarli. Abbiamo una molteplicità di soluzioni tecnologiche per una molteplicità di problemi. Il tema è che questo richiede due ordini di investimenti: orizzontali, cioè sulla tecnologia, e verticali, sulle singole applicazioni. Su questo secondo aspetto noi siamo stati finora abbastanza bravi. Magari non avremo i tool più potenti del mondo, ma siamo in grado di adattarli per ottenere risultati anche estremamente pertinenti. Ma la vera sfida delle ultime novità tecnologiche è che sono più semplici da integrare rispetto a qualche anno fa. Questa facilità di utilizzo penalizza i nostri prodotti».

Il fatto di avere ricerca e sviluppo ripartiti tra 27 diversi Paesi rischia di penalizzarci?

«Ci vorrebbe una task force europea dedicata a fare in modo che ci siano investimenti coordinati, per non disperdere le risorse e favorire innovazione e crescita. A quel punto si diversificherebbe e si potrebbero mettere a fattor comune le capacità uniche del nostro continente. Però siamo fatti così, è la bellezza della nostra Europa. Coordiniamoci solo un po’ di più e soprattutto evitiamo di perdere soluzioni tecnologiche all’avanguardia solo perché qui non trovano ancora una domanda di Mercato immediata. D’altronde, la nostra stessa complessità talvolta può essere anche un’arma di attacco, o quanto meno una barriera all’ingresso per gli altri». ©

📸 Credits: Canva          

Articolo tratto dal numero del 15 febbraio 2025 de il Bollettino. Abbonati!

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