Argonauti, Giasone riletto come antieroe borghese

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«Persino Omero aveva i suoi classici»: così Tommaso Braccini, in Il viaggio più pericoloso della storia (il Mulino, pp. 279, euro 27,00), introduce una delle saghe più antiche e prolifiche, quella del mirabolante viaggio «ai confini del mondo» degli Argonauti verso la misteriosa Colchide, oltre il Mar Nero, alla ricerca del Vello d’oro, passando lungo contee e spazi liminari, fino alle porte di Ade, per poi fare ritorno, vertiginosamente, oltre il fiume Oceano che circonda la terra abitata e risalire verso il Mediterraneo da sud, dalle sabbie del deserto e dell’ignoto; un’epopea che conosciamo soprattutto dal poema di Apollonio Rodio, le Argonautiche, quasi «un’Iliade o un’Odissea rivisitate da Woody Allen» in cui il protagonista Giasone appare «un opportunista tentennante», un antieroe borghese vicino alle malizie e alle meschinità di un Ulisse riscritto da Joyce.

Il libro conduce attraverso un’infinita serie di racconti ed episodi secondari, sequel e prequel raccolti nell’ormai diffusa forma del retelling, con l’intenzione di far prevalere la narrazione rispetto al formato saggistico (affidato a un capitolo finale di fonti, bibliografia e approfondimenti). Braccini coinvolge confidenzialmente i suoi lettori con paralleli efficaci in cui, oltre alle tradizioni folkloriche riprese dal catalogo di Thompson, spiccano riferimenti a note saghe pop contemporanee o a scenari di particolare complessità, come l’eziologia geopolitica dei racconti sul Bosforo cui è dato largo spazio, dalla fortezza voluta dal sultano Maometto II (1452) al blocco navale di Erdogan poco dopo lo scoppio della guerra in Ucraina (2022).

La minuziosa raccolta dei luoghi procede con un metodo ‘alla Pausania’ che porta all’identificazione con i nomi delle località attuali, ne spiega le etimologie e raccoglie i riflessi moderni delle vestigia antiche. Ampio spazio è dato alla descrizione del paesaggio e alle attrazioni turistiche impregnate di riferimenti mitici, come il sentiero dei Centauri, all’inizio del viaggio, «tra i boschi verdissimi e le cascatelle del Pelio». La cura dei dettagli geografici si accompagna a quelli storici, come gli ordini cavallereschi nati nel XIV secolo in memoria dell’impresa argonautica, e al catalogo degli oggetti del patrimonio culturale, quasi testimoni del viaggio, come il minuscolo sarcofago di IV secolo in cui è rappresentato Achille in braccio a Chirone mentre saluta il padre Peleo che sta per imbarcarsi sulla nave Argo. Popoli e personaggi poco noti diventano i protagonisti di una serie di episodi fruibili anche singolarmente, nello svolgersi di brevi paragrafi i cui titoli sembrano un invito alla lettura: «I magnifici cinquanta», «Arrivederci bambino mio», «L’isola delle donne», «Un terribile equivoco», «Un incontro di pugilato», «Nel salotto di Afrodite»,«Istruzioni per l’uso», etc.

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La natura seriale del mito classico, gli spin-off, le diramazioni e tutti gli altri elementi di intreccio e variazione che ne rendono difficile la sintesi si confermano adatti a una riproposizione che adotti i medesimi strumenti narrativi. I molteplici miti connessi con la saga argonautica non sono quindi soltanto descritti, analizzati e ricondotti a una struttura comune: Braccini intende davvero raccontare di nuovo e adotta ogni strategia per tenere accesa l’attenzione dei lettori senza mai perdere il filo della trama principale e disperdersi nei mille rivoli delle varianti. Ma non si tratta solo di riscrittura del mito; «le note a piè pagina dell’erudizione antica», infatti, diventano qui gli ingredienti che consentono di rimettere in gioco aspetti della narrazione altrimenti perduti; opere meno note di cui restano scarni frammenti come il satiresco Amico di Sofocle, o autori poco frequentati come Dioniso Scitobrachione (cioè «Braccio di cuoio» perché infaticabile e prolisso nello scrivere), e altri testi ancora trascurati nel canone abituale, come la versione pulp della storia di Medea in Draconzio, diventano miniera di aneddoti ed episodi. Questa minuziosa indagine, la sistematica raccolta di motivi e informazioni nelle tracce degli antichi commenti, consente di mettere in relazione tra loro frammenti di mito altrimenti poco comprensibili, recuperati all’erudizione e a un discorso culturale ed etnografico più ampio, come di prassi nelle ricerche di antropologia storica del mondo antico.

L’apparente leggerezza della scrittura si fonda in realtà su una conoscenza approfondita delle fonti, comprese quelle archeologiche. E la chiave di lettura principale consiste nella de-eroicizzazione dell’impresa di Apollonio Rodio che sembra ritrarre un gruppo di avventurieri un po’ guasconi e irriverenti, capaci di mimetismi improvvisi: così Giasone nel momento culminante dell’incontro di Medea pare «un damerino», «vestito all’ultima moda dell’età eroica» per poi ripresentarsi alla corte di Eeta, il re dei Colchi, come un «eroe invincibile» in grado di superare l’ultima prova protetto dal filtro magico della pianta nata dal sangue del fegato di Prometeo, identificata con la mandragora, pianta urlante tanto nella tradizione classica quanto in quella di Harry Potter. È appunto Medea la protagonista della parte finale della vicenda, di fianco alla quale Giasone appare sempre più in balia di paure ed emozioni poco eroiche, «imbambolato» e destinato al fallimento senza l’aiuto di questa ragazza, sedotta e poi abbandonata al suo destino infelice di donna e straniera nel sequel del racconto cui hanno dato voce soprattutto Euripide e Ovidio e che tanta fortuna avrà nelle tradizioni letterarie e artistiche contemporanee. Nei titoli di coda finali l’happy end è comunque mancato. Giasone sembra quasi scomparire, forse «addormentato all’ombra dello scafo ormai fatiscente» della nave da cui aveva tratto una gloria provvisoria e in fondo sbagliata; Medea, a sua volta, tornata alla precedente vita di maga o sacerdotessa in una Colchide ormai violata nei suoi misteri, troverà infine le nozze con «un eroe vero», Achille. Ma solo nei Campi Elisi, dopo la morte di entrambi.



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