I morti sul lavoro, forse serve un cambio di paradigma

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L’Osservatorio Nazionale Morti sul Lavoro nei giorni scorsi ha fornito i dati relativi al 2024 registrando un aumento della mortalità del 6,7% rispetto al 2023.  Lo stesso Osservatorio sottolinea che per la prima volta, dopo 17 anni di monitoraggio, si sono superati i 1000 morti, esattamente 1482.


A questi dati drammatici si aggiunge un’incredibile strage di anziani che muoiono lavorando. Dei morti registrati oltre il 30% sono ultrasessantenni. Il 2025 non lascia ben sperare poiché già nei primissimi giorni di gennaio si sono registrati ben 11 morti. Ormai abbiamo perduto le strutture di senso in ogni cosa che facciamo e che pensiamo. Poche sono le leggi, le pratiche, le azioni politiche civili e sociali basate sul buon senso e sulla tecnica. Il buon senso e la tecnica hanno perduto cittadinanza, sono stati sostituiti dalle leggi e dalla “formazione”. La tecnica e il buon senso si sono trasformati nel teismo di una nuova “chiesa” la cui dottrina propugna un nuovo dio, Il dio della sicurezza.


La sicurezza è sbandierata ovunque come priorità assoluta, ma nonostante ciò le curve statistiche sulla mortalità si impennano sempre più sebbene una legge ferrea imponga rigide procedure, obblighi la formazione per tutti, detti regole ferree, individui responsabili e responsabilità, commini multe salate e preveda pene esemplari. Quello a cui assistiamo è soltanto una plateale eterogenesi dei fini: a fronte di tanta attenzione si registra l’aumento delle vittime.


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La legge che disciplina la materia è una legge il cui dispositivo indica persino la pena esatta per il trasgressore, senza prevedere attenuanti, sostituendosi al giudice e al codice penale. Ma nonostante quest’ossessivo rigore il risultato è fallimentare con l’aggravante che ogni pratica lavorativa che prima si svolgeva in maniera agevole ora diventa sempre più complicata, sempre più lenta, sempre più sacrificante, sempre più vincolata e sempre più onerosa. Si verifica una fenomenologia della sicurezza che impone la medesima come fine e non come mezzo.


In questo scenario brulica una congerie di esperti della sicurezza, attuatori della sicurezza, progettisti della sicurezza, operatori della sicurezza, responsabili della sicurezza, rappresentanti della sicurezza, formatori della sicurezza, etc.. Procedure bizantine e tantissime figure e ruoli così capillari che dovrebbero non far verificare alcun incidente, nemmeno un graffio per disattenzione, invece i morti aumentano.


Dunque qualcosa certamente non funziona. Non funzionano queste leggi? Non funzionano questi regolamenti? Non funziona questa formazione? Non funzionano questi controlli? Non funzionano le procedure?  Si ha il sospetto che alcuni di questi elementi alla luce dei fatti appaiono fini a sé stessi.


Certamente non funziona la burocratizzazione del buon senso e della tecnica. Forse tutto è svolto come solitamente accade, per soli fini prosaici vestiti di umanistica formalità: potere di contrattazione, potere gestionale, prebende, profitti e nuovi sbocchi lavorativi per coloro che ripiegano le loro sterili qualifiche in questo versante.

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Qualunque sia il vero vulnus i risultati sono pochi e scadenti. Anche con la sicurezza l’approccio è formalistico, l’importante che le carte siano apposto, che ognuno delle figure previste ope legis compia formalmente la sua parte e declini formalmente la sua responsabilità.


Nel concreto, non cambia nulla. Invece di puntare ad un processo culturale e pedagogico che sviluppi in ogni coscienza la consapevolezza del rischio si è puntato su un processo legale sanzionatorio e punitivo, immemori che l’animo umano non impara quasi mai dalla punizione, specie quando non è accompagnata da un’azione educativa.


L’uomo impara problematizzando, cioè acquisendo consapevolezza attraverso processi pedagogici e culturali che lo inducono a sviluppare la sensibilità verso la percezione del rischio; ogni incidente ha come causa una personale incapacità di valutazione del rischio.

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Questa sensibilità la si impara nelle scuole, grazie all’istruzione e all’educazione al buon senso, al senso civico, alla solidarietà, all’altruismo, alla cooperazione, al rispetto del prossimo e non nelle aule dei tribunali e meno che mai dalle astratte carte scritte o dai cartelli di divieto. Questi ultimi sono strumenti che non sviluppano consapevolezza ma vengono percepiti come obblighi o impedimenti che istintivamente l’animo tende a raggirare attraverso perniciosi espedienti.


Eppure da secoli la filosofia, l’antropologia, la psicologia, le neuro scienze e la pedagogia ci hanno spiegato che per sviluppare la consapevolezza non servono le sanzioni ma serve solo educare e nel caso in specie sviluppare la capacità di capire in ogni frangente ciò che è pericoloso e di ciò che non lo è.


Affidare lo sviluppo della percezione del rischio solo a regole punitive e a paralizzanti procedure può produrre solo atteggiamenti speculativi, e la speculazione di per sé non risolve ma aggrava i problemi.


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E’ evidente che serve un cambio di paradigma culturale Le condizioni di sicurezza le determina il buon senso e l’istruzione. Parafrasando Gesualdo Bufalino … forse per sviluppare il buon senso ed abbattere i rischi di incidenti sul lavoro più che questo apparato inutile di leggi, regolamenti, procedure, servirebbe un esercito di maestre elementari non una infinità di “formatori” che ripetono dedissequamente i contenuti della legge.


A questo si aggiunga che per abbattere del 30% le vittime basterebbe assecondare la biologia che ci dice che le capacità produttive e psicofisiche di un organismo umano sono massime dai 15 ai 35-40 anni dopo si assiste ad un progressivo declino che raggiunti i 60 anni diventa incompatibile con le attività lavorative in genere, specie con quelle che necessitano sforzi fisici e alta soglia di vigilanza.


Pertanto basterebbe che chi governa invece di pensare a pareggiare il bilancio nazionale, fraudolentemente inserito come obbligo costituzionale, tagliando anche la spesa pensionistica e aumentando sempre più l’età pensionabile, operasse una riforma delle pensioni che inverte la rotta di questa deriva sociale.


Basterebbe una legge che riduca l’età pensionabile almeno a 60 anni per:

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  • dare sicure prospettive esistenziali alle nuove generazioni;
  • immettere nuove e fresche energie nel mondo del lavoro che ne aumenterebbero efficacia, produttività e qualità migliorando in automatico le condizioni di sicurezza;
  • riconoscere alle vecchie generazioni il diritto al riposo.


         Una legge del genere produrrebbe subito un calo della mortalità lavorativa del 30% a fronte dell’attuale disciplina in materia di sicurezza che in oltre tre decenni, non è riuscita ad ottenere nemmeno il calo di un decimale.


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Ma a quanto pare per gli anziani il problema della sicurezza è secondario al pareggio di bilancio.


Ciò svela l’ipocrisia di un sistema politico che non tiene affatto alla salvaguardia dei lavoratori e del lavoro, ma mira solo a quadrare cinicamente i conti a favore del potere finanziario che gli è egemone, anche quando c’è in gioco un numero enorme di vite umane.






















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