Incontrarsi a Kragujevac, è qui la Festa

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Venerdi sera. Appoggiate al muro della facoltà di Scienza Umane dell’Università di Kragujevac, due ragazze con lo zaino sulle spalle appena arrivate in città stanno cercando di stendere uno striscione. La scritta, piccola, è in inglese, ma suona più o meno cosi: «Quanti anni devono vivere alcune persone prima che venga accordata loro la libertà?». È la frase di una canzone di Bob Dylan, Blowin’ In The Wind, quando il giovane Bobby si dava da fare con il folk e non aveva ancora intrapreso la strada del tradimento. O, per alcuni, del parricidio. Vengono entrambe da Novi Sad, dove tutto è cominciato. Incuriosito dalla citazione mi avvicino e chiedo se per caso abbiano visto il film A Complete Unknown, uscito recentemente. «Due volte», risponde una delle due ragazze, con un largo sorriso venato di malinconia. Per poi aggiungere: «Sloboda, freedom, chiediamo solo questo, è cosi difficile da comprendere?».

DOVEVA ESSERE una grande festa, all’insegna dello “sresti”, dell’incontrasi. E cosi è stato. Sono arrivati a Kragujevac da tutto il paese per il raduno organizzato dagli studenti nel giorno della festa nazionale serba. Decine e decine di migliaia, forse più di centomila, difficile quantificare. Qualcuno azzarda persino paragoni ingombranti, come quello con la famosa manifestazione anti Milosevic, che qui nessuno ha piacere a nominare, di venticinque anni fa.

I primi studenti sono giunti venerdi in serata dopo una marcia di quattro giorni, accolti da un simbolico tappeto rosso posto sul marciapiede e dall’entusiasmo della comunità locale. La maggioranza invece è arrivata nella mattinata di ieri, alla spicciolata, visto che il piano della protesta prevedeva di bloccare la città per ben quindici ore, dalle nove di mattina a mezzanotte.

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La scelta di Kragujevac non è casuale. Fu qui infatti che nel 1835 la Serbia, allora ancora nelle mani dell’Impero Ottomano, elaborò una costituzione che mirava a limitare i poteri dei governanti. Quello stesso arrogante potere che i ragazzi ieri hanno ribadito di non essere più disposti a sopportare.

«LA NOSTRA non è una protesta politica. Chiediamo solo libertà e giustizia», chiarisce Marcos, che studia Security Study all’università di Belgrado ed è venuto qui in compagnia di quattro amici. Uno dei quali, Darko, sembra essere uno dei pochi dubbiosi sul futuro del movimento: «Abbiamo fatto grandi cose in questi mesi, ma ora siamo a un bivio – spiega -, credo che servirebbe un passo in avanti, magari un grande sciopero generale».

È l’antico dilemma che prima o poi tutti i movimenti che rischiano di diventare adulti sono costretti ad affrontare. Che forza vogliamo rappresentare? E in caso quali compromessi siamo disposti ad accettare? Chissà, magari toccherà anche a loro affrontare questa conversazione. Ma non era ieri quel giorno. Ieri c’è stato spazio solo per la festa, animata, divertente e chiassosa come posso esserlo le feste dei serbi. Un rumore interrotto solo per i fatidici quindici minuti, alle 11,52, quando sul boulevard Lepenicki, epicentro del raduno, è calato un infernale silenzio, per ricordare le vittime della tragedia di Novi Sad. Ai lati della strada sono state posizionate quindici sedie, ognuna con una rosa poggiata sopra e una scritta con nome ed età delle persone che non ci sono più.

«Sono qui per sostenere la ribellione studentesca, che si è trasformata in una protesta civile – mi dice una signora del luogo quasi commossa, quando il rumore è tornato a prendersi il palcoscenico – in modo che la Serbia possa diventare un Paese dove vivere dignitosamente».

A UN CERTO PUNTO è girata la voce che ci fossero in giro vari agenti sotto copertura ma il raduno è filato via senza problemi. È volontà dello stesso governo tenere un basso profilo, per evitare che le notizie sulla protesta si diffondano con rapidità fuori dal paese. Nel frattempo il presidente Aleksandar Vucic è impegnato in una duplice narrazione: da un lato ipotizza improbabili cospirazioni euro-americane che minerebbero la stabilità del paese, dall’altro ripete che l’Europa, fin troppo silente in questa storia, è un alleato fedele.

È una vecchia narrazione che consiste nel convincere gli altri ad accettare due convinzioni contraddittorie. Orwell in 1984 l’aveva ribattezzata il “double think”. Ma gli studenti scesi in piazza ieri hanno fatto capire che non si accontenteranno più di questi giochetti. Vogliono risposte. Alle solite maledette quattro richieste.



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