Era novembre del 1968, da mesi la contestazione giovanile occupava scuole e università per divulgare le ragioni di una lotta finalizzata a radicali cambiamenti, calamitando l’interesse dell’opinione pubblica, quando, a Napoli, un raffinato politico, un mite e rigoroso intellettuale, Alberto Servidio rilanciò la sua sfida urbanistica per una città, non più chiusa nel suo guscio autoreferenziale di ex capitale ma aperta a un territorio più vasto. Sulla scia, va ricordato, degli studi di Manlio Rossi Doria, che, da un fronte opposto, delle aree interne povere dello spopolamento rispetto a quelle più industrializzate e popolate della fascia costiera, auspicava lo stesso obiettivo: l’indispensabilità di un riequilibrio territoriale. Servidio disse: “Se vogliamo dare un assetto razionale al nostro sistema metropolitano, dobbiamo guardare all’intero territorio per distribuirne le diverse funzioni con un disegno organico e assegnare a ciascuna parte una precisa funzione. Troppe le spinte di gravitazione che oggi premono su Napoli e la soffocano: le zone produttive vanno proiettate all’esterno, cioè nell’entroterra napoletano, in caso contrario questa città diventerà una bolgia”.
In sintesi: i problemi di Napoli non si risolvono in chiave comunale e municipale, gran parte di questi problemi esigono che siano risolti in una con quelli del territorio di cui Napoli è centro di gravitazione. Un’indicazione, disattesa, anzi beffata in seguito da Piani Regolatori Napolicentrici, di perimetro vicereale, non oltre Capodimonte. Ora è vero che il sindaco Manfredi ha ereditato una serie di criticità derivanti da remoti gravi abbagli amministrativi, troppe distrazioni ante-Covid, durante il Covid e post-Covid, ma è impossibile far credere di non essersi accorti che stava crescendo una “città locanda e friggitoria con movida”.
Un quadro critico accentuato da una recente sua improvvida dichiarazione: “Preferisco avere una città caotica, ma viva e, soprattutto ricca, anziché vuota, povera”. Bene, bravo, bis! Segno di scarsa attenzione alla questione residenziale, cruciale in “una città, che miri sul serio a qualificarsi dimora efficiente e piacevole per l’esercizio di attività e la creazione di un circuito virtuoso”. Da suscitare giustamente una ferma e pubblica presa di distanza da parte del Comitato Vivibilità Cittadina, sostenitore di un patto condiviso e però non onorato: “La città non è un bene di consumo”. C’è altro ancora: ci si è dimenticati troppo presto dello “Spirito di Napoli”, non souvenir occasionale ma un fondamentale documento di precisi e preziosi intenti, stilato nel novembre del 2023 a conclusione della Conferenza internazionale sul futuro delle Convenzioni Unesco e sulla Protezione del Patrimonio Mondiale Culturale e Naturale.
Un memorandum articolato, utile per amministratori pubblici ad ogni livello, per la gente comune, ricco di indicazioni su come governare il fenomeno del turismo di massa. Che, per citare solo qualche passo, “non può portare alle sue estreme conseguenze, allontanando le comunità locali dal patrimonio, senza creare un vero e proprio ritorno per le stesse e causando inoltre seri problemi di tutela”. Attualissimo per la efficacia dell’appello finale, rivolto ad “armonizzare il turismo con le necessità della comunità, troppo spesso penalizzata dagli eccessivi flussi”. Se a Napoli non è tutto oro quello che riluce, nelle aree interne la situazione dei paesi e dei borghi. rispetto all’enfasi sul loro effettivo rilancio, non è ancora percepibile nella misura auspicata. Anzi dopo una fase iniziale c’è molta incertezza.
La Snai, acronimo della Strategia Nazionale delle Aree Interne ha avuto sì la conferma nel nuovo accordo come una delle strategie integrate territoriali ma di fatto è stata regionalizzata. Starà alle Regioni portarla avanti. Non si riesce ancora a capire in che modo, avendo potuto verificare in questi anni ciò che Francesco Compagna temeva e preconizzò subito dopo il loro varo. Quando, nel novembre del 1975, scrisse sulla sua mitica, ineguagliabile rivista “Nord e Sud”: “All’origine del nostro ordinamento regionale c’è il vizio del “pan regionalismo”; e questo vizio sembra accentuarsi, diventare un carattere degenerativo sempre più allarmante della fisionomia stessa che, crescendo, le Regioni vanno assumendo”. Il nostro discorso è partito da lontano di proposito, per sottolineare un limite da molto tempo penalizzante che le grandi decisive progettualità di svolta, da noi restano sempre al palo. Oggi l’unico riequilibrio territoriale esistente è nelle feste e nelle tavolate “impegnate”. Cosa non trascurabile, anche se non fanno sistema e spesso da paravento a inerzie diffuse, a flop istituzionali.
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